Sembra che per raggiungere quell’ambito trono di «Paese sviluppato», sul modello «occidentale», sia necessario passare attraverso decenni di totale svuotamento della Natura in ogni suo elemento. Il Ghana, per raggiungere questo obiettivo, ha perso in meno di 40 anni oltre il 75% della sua superficie forestale
Se pensiamo che lo sviluppo dell’uomo possa coincidere con la conservazione della natura, stiamo semplicemente mettendo i paraocchi. Un attento osservatore delle vicende del mondo, ma anche uno abbastanza distratto, non avrà fatto a meno di notare che lo sviluppo delle popolazioni passa sempre, inevitabilmente per la deplezione delle risorse naturali locali (Diamond, 2000, Collasso). Così è stato, ad esempio per la vecchia Europa, che dopo aver sacrificato le sue foreste per costruire ferrovie, espandere città, ricavare terreni agricoli e riscaldare le case, si ritrova ora con isolati lembi di vegetazione autoctona in un mare di coltivazioni ed aree riforestate (Diamond 1998, Armi, acciaio e malattie).
Poco è rimasto di quelle vetuste foreste di querce, faggi e conifere che un tempo ricoprivano il bacino del Mediterraneo, le Alpi, i Pirenei, le paludi, la Scandinavia, etc. Se si escludono poche aree transalpine, qualche ettaro qua e la, la Foresta Bavarese e la Foresta Nera e la fredda taiga sulle terre emerse tra il Baltico, il Mare del Nord e quello di Norvegia, poco resta dell’intatto splendore vegetale. Per lo meno di quello mai toccato dalla mano umana. Così per le zone umide, la cui bonifica ha liberato dalla malaria molte popolazioni, ma ha causato una perdita di biodiversità incalcolabile; così per i mari costieri, i cui ecosistemi intorno all’Europa sono così compromessi da far ritenere scomparsa oltre il 90% della biomassa di soli 50 anni fa (Fao, 2001). In compenso gli Stati europei sono ai primi posti degli indici di sviluppo e vantano una storia ed una tecnologia che tutti invidiano.
Lungo lo stesso cammino di sfruttamento indiscriminato dell’ambiente si muovono gli Stati Uniti, il paese «più sviluppato» al mondo (Global Development Index, 2010), incalzato negli ultimi anni dalla Cina e dall’India, la cui aria si sta tingendo di grigio, le cui miniere stanno intossicando i fiumi, la cui pesca sta svuotando i mari, e così via (Geo, Maggio 2011).
Sembra, dunque, che per raggiungere quell’ambito trono di «Paese sviluppato» (come se il termine sviluppo fosse scevro da interpretazioni relativistiche), sul modello «occidentale» dell’abbiamo-il-cancro-ma-è-tecnologico, sia necessario passare attraverso decenni di totale svuotamento della Natura in ogni suo elemento (State of the World, 2010). Tale conclusione potrà sembrare azzardata ai più convinti sostenitori delle cause umanitarie, che vedono nell’emancipazione dalla ciotola con riso e manioca, nel wi-fi e nel mobilephone il fine ultimo della soddisfazione umana, il sigillo della sviluppità o sviluppgine, tanto per coniare un neologismo. Ed in questa sviluppagine non colgono l’effetto boomerang che in pochi anni si riverserà su quelle popolazioni che con grande sforzo si è cercato di portare al Primo mondo.
Paesi in via di sviluppo li chiamano, quando si stan muovendo; del Terzo Mondo o, meglio, Sottosviluppati (offensivo… meglio diversamente sviluppati) quando stagnano. Peccato che raramente gli umanisti convinti colgano il danno inimmaginabile che gli aiuti allo sviluppo, la cooperazione internazionale, sta portando sotto le mentite spoglie del buon samaritano. Un missionario Robin Hood all’incontrario, per nascondere le mani nere, sporche del petrolio e dei diamanti, del grasso di motoseghe e reti da pesca con le quali (entrambe) gli Stati «sviluppati» attingono da quelli «sottosviluppati», per poi restituire (con una sola) un tenero gesto di carità.
Emblematico in questo senso è il caso del Ghana. Da tutti ritenuto simbolo dell’Africa che cresce e si sviluppa. Dagli investitori europei considerato un ottimo affare, dove rubi la cioccolata dal barattolo e nessuno ti spara addosso. Che sia sviluppato, il Ghana, lo si nota vagliando la tesi sopra esposta. Ha la ferrovia, pur se funziona poco, le aziende del legno, le piantagioni di caucciù, cacao, banane, gomma e palme da olio. Ha un florido commercio col resto del mondo. Sono anche arrivati i cinesi. Ha le miniere, i diamanti e l’oro. Ha il petrolio. E quindi, ha perso in meno di 40 anni oltre il 75% della sua superficie forestale (Fao, 2011). Di quella rigogliosa foresta vergine che un tempo formava una lunga fascia estesa dalla Guinea, attraverso la Costa d’Avorio (Stato che «sviluppato» in senso europeo lo è, nonostante la guerra civile dei francesi) per finire nel Dahomei gap in Nigeria, ormai restano pochi stracci. Come triangoli, quadrati di stoffa rattoppati, le foreste vergini del Ghana dalle immagini satellitari, sono punti in un mare di «sviluppo». Un verde fitto di pochi ettari avvolto da un giallo mais, un verdino palma, un rossiccio terra da scavo (vedi foto sopra).
E come spesso accade per le aree non sfiorate dall’uomo, si tratta di parchi nazionali scollegati che sembrano galleggiare come isole nell’oceano. Proprio la frammentazione delle foreste ghanesi ha portato ad una grave rarefazione della biodiversità e ad una rapida diminuzione delle popolazioni selvatiche. Pochi sono rimasti gli elefanti di foresta, che riescono difficilmente a spostarsi tra un’area protetta e l’altra. Pochissime le scimmie, facilmente cacciabili in ecosistemi altamente disturbati.
In compenso, però, il Ghana ha potuto beneficiare di tutta una serie di incentivi economici della Comunità europea per il suo sviluppo, la creazione di campi e coltivazioni. Se non fosse che quasi il 90% di quanto prodotto da quelle aree, frutto della deforestazione indiscriminata, venga ottenuto con lavoro sottopagato, da multinazionali che poi rivendono la materia prima nel Vecchio continente, sembrerebbe quasi di essere diventati davvero «umanitari».
Quindi il processo di induzione allo sviluppo è semplice. Prima si instaura un modello di ricchezza e benessere dominante, solitamente quello occidentale. Poi lo si diffonde con l’ausilio delle multinazionali (tv, lavaggi del cervello porta a porta, spot, etc.), ottenendo manodopera locale a basso costo. Si inizia l’opera di sfruttamento sino all’osso degli ecosistemi. Si racimola quanto più possibile, facendolo passare per contributo allo sviluppo e si torna a casa.
Una precisazione va fatta, però. Pur lasciando alle popolazioni umane la possibilità autonoma di inseguire un fantomatico benessere, queste sembra attraversino sempre una fase di ipersfruttamento e distruzione delle risorse naturali locali (Diamond, ibidem). La storia non coloniale dello sviluppo occidentale, insegna. Quella dello sviluppo coloniale del «Terzo Mondo», conferma.
I parchi nazionali di Bia, la riserva nazionale di Ankasa e quella regionale di Bobiri, in Ghana, sono sintomatici esempi di come lo sfruttamento dell’ambiente, in questo caso dell’ecosistema forestale, porti alla scomparsa della fauna, all’aumento dei casi di malaria nei villaggi vicini, all’inquinamento dell’acqua ed al degrado della struttura delle ultime foreste vergini del pianeta. Il tutto incentivato da politiche di sviluppo cieche che mirano ad arricchire solamente le tasche di pochi (e non a migliorare realmente le condizioni di vita delle persone, che negli anni si ritrovano ad essere ancora più «povere» e, per di più, senza foreste) e che nel medio-lungo termine si ripercuotono sui popoli che in quei luoghi ci vivono.
Solo interventi lungimiranti, per evitare che lo sviluppo passi attraverso il depauperamento delle ricchezze naturali, possono rappresentare una speranza in un mondo con 4 (forse 6 in 20 anni) miliardi di abitanti che aspettano solo l’incentivo della «mano invisibile» per avviare la tremenda macchina dello sviluppo.
Solo se gli stati ecologicamente sostenibili (pochi, purtroppo, come la Germania o alcuni Paesi scandinavi), che avendo già affrontato una grave crisi ambientale durante il proprio sviluppo sono diventati consapevoli del valore dell’ambiente naturale ed hanno avviato politiche di tutela ed educazione, diffonderanno in maniera gratuita e su vasta scala le tecnologie pulite, le conoscenze di base, il concetto del valore intrinseco della Natura e l’educazione alla tutela dell’ambiente, si eviterà quanto sta avvenendo in Ghana, dove nei cieli di Accra troneggiano i grattacieli sul modello americano, ma non si vede più un albero. Neanche uno africano.
Per un analisi dettagliata delle implicazioni dello sviluppo sulle risorse naturali si possono leggere l’articolo in pubblicazione sul numero di Maggio di Economology Journal dal titolo «Global patterns of human development and environmental protection» (al sito www.economologos.com) ed i saggi di Jared Diamond citati nel testo.