È inutile avvitarsi su cause e previsioni, ormai i cambiamenti climatici sono un dato di fatto e il territorio va gestito e non depredato e quindi le responsabilità sono precise e si conoscono tutte
Piove, dov’è la novità? Eppure disastri e tragedie si rincorrono giorno dopo giorno nelle ultime settimane. Dopo l’alluvione che ha messo in ginocchio la Capitale la scorsa settimana, stavolta è toccato alla Liguria dove le vittime accertate sono ben sette, ed incalcolabili sono i danni alle abitazioni. Alcune città, talmente sovrastate dalla furia del fango, a poche ore dalle piogge sembrano essere completamente scomparse. Ma tutto questo, nella drammaticità delle situazioni individuali, ha da insegnarci qualcosa di più generale.
Innanzitutto, non c’è molto da meravigliarsi se le montagne si sbriciolano ad ogni secchiata d’acqua, perché è da anni che si discute del grave dissesto idrogeologico italiano. Instabilità creata dall’irresponsabile gestione del territorio, dal disboscamento indiscriminato degli anni 70-80, dalle opere di edilizia abusiva (che questo Governo, ma anche molti precedenti, prova sempre a «perdonare» con un bel condono) che ostruiscono forre, lame, gravine e canali, dalla mancanza di zone verdi cuscinetto per l’assorbimento delle acque meteoriche urbane, dalle cave più o meno autorizzate e dalle inesistenti attività di messa in sicurezza delle zone a rischio.
L’unico ministro, Alfonso Pecoraro Scanio, che aveva osato porre al vertice della sua agenda un cospicuo finanziamento per la riduzione del dissesto geologico italiano è stato letteralmente ridicolizzato ed apostrofato come «il solito verde ambientalista che diventa ministro e spreca i soldi per le opere inutili». Meglio investire il denaro in «utilissimi» ponti sugli stretti, alte velocità tra le montagne, barriere acquatiche semovibili al largo di fragili ecosistemi.
Ora, però, che le vittime umane e non iniziano a contarsi ad ogni più insistente temporale, tanto risibile quella preoccupazione non lo è più. Geologi e scienziati di ogni parte d’Italia da tempo lanciano disperati allarmi invocando l’intervento urgente di messa in sicurezza degli argini, dei costoni scoperti di montagna o delle aree soggette ad allagamento. Come se nulla fosse…
Il primo insegnamento che ne deriva, quindi, è: in Italia non importa quanto a lungo e con quanta insistenza denunci un’imminente problema, se questo non tocca l’interesse privato di qualcuno che conta. Eh! se il fango sfiorasse i cancelli di Arcore…
Si potrebbe, però, obiettare che gli eventi di questi giorni hanno l’aspetto di calamità naturali di straordinaria entità e non di ordinaria gestione. Da un certo punto di vista questo è vero. Ciò che però è straordinaria è la quantità di pioggia caduta in poco tempo e non il fatto che in autunno piova molto. La differenza appare sottile e speciosa, ma si tratta di un dettaglio sostanziale.
Si fa sempre un grande errore a trarre conclusioni generali dagli eventi senza elementi concreti di supporto. Così, è comune sentir parlare di catastrofi locali dovute all’effetto serra globale che sta mutando il clima del pianeta. Simili affermazioni, sebbene riportino l’opinione pubblica sul grave problema dell’emissione incontrollata dovuta all’utilizzo di combustibili fossili, rischiano di trasformarsi in boomerang controproducenti. Nessuno sa con certezza quanto questi eventi estremi siano frutto dei mutamenti climatici, naturale conseguenza degli aumentati livelli di anidride carbonica in atmosfera. Le emissioni antropogeniche di gas ad effetto serra influiscono certamente sul clima della Terra. Stabilire come, quando e con quale intensità questi fenomeni si manifestano è paragonabile al lancio dei dadi per indovinare l’età di un uomo.
È probabile, però, pur se non facilmente dimostrabile (almeno con le conoscenze in possesso dell’umanità al momento) che eventi meteorologici estremi siano alimentati da variazioni climatiche a livello globale. È dunque meglio una mezza certezza suggerita a bassa voce o un’oscura idea urlata ai quattro venti? Dipende dall’obiettivo. Nel caso del clima sarebbe meglio allarmare l’umanità con rigore, per evitare che una sola previsione scorretta possa mettere in discussione decine di ipotesi confermate ed, ahinoi, disastrose.
Non sappiamo se le inondazioni in Tailandia o le piogge in Italia siano effetti locali del clima, variazioni sul lungo periodo, risultati di cause ancora sconosciute o sconvolgimenti delle dinamiche atmosferiche globali. Però siamo certi del fatto che mai nella storia del pianeta Terra, una sola specie, in pochi decenni, ha riportato in atmosfera una tale quantità di carbonio accumulatosi nel suolo in milioni di anni.
Quella gran massa di vegetali sepolti in mare e nelle pozze terrestri del Carbonifero è stata riportata alla luce per alimentare le ingorde macchine mangia-energia dell’uomo moderno, sottoforma di carbone, gas e petrolio. Poiché la Terra è un sistema chiuso ai cicli della materia ed aperto a quelli dell’energia, è chiaro che le rapide emissioni prodotte dal XVIII secolo in poi, hanno ed avranno effetti più o meno rilevanti. Come e se il sistema terrestre, la Gaia di Lovelock, svilupperà meccanismi di retroazione non ci è dato di sapere.
L’unica cosa che, in una tale incertezza, possiamo fare è prevenire che le conseguenze si aggravino.
Non si può continuare ad agire come avvenne per l’amianto, dove il principio di precauzione aveva lasciato il posto agli interessi economici. Non può esistere ecologia senza economia, e viceversa.
Seconda lezione, pertanto: anche se le conseguenze di un’azione ai danni dell’ambiente non sono del tutto, e forse mai lo saranno, chiare alla scienza, non si può rischiare di vederne gli effetti, perché potrebbe essere troppo tardi per recuperare.
Infine, vi è un problema che tocca spesso più le sfere della comunicazione di massa, dei dibattiti televisivi con pseudo-esperti tuttologi, che il mondo scientifico. Ed è quello della prevedibilità. Quanto l’umanità del XXI secolo è in grado di prevedere il futuro, e quindi anche gli eventi climatici estremi? Non molto, rispetto alle capacità del medioevo, anche se questo potrebbe sorprendere e far storcere il naso a qualcuno. Sebbene le conoscenze scientifiche in molti settori siano esponenzialmente cresciute, in particolare negli ultimi due secoli, la nostra capacità di predizione è rimasta molto limitata.
Questo, più che ad una mancanza di strumenti intellettuali, è dovuto ad una serie di limiti fisici e matematici. Al Mit studiano ancora oggi, nonostante l’avvento dei supercomputer, come dare al pubblico l’informazione meno scorretta possibile riguardante le previsioni del tempo del giorno dopo.
Questo vuol dire che il nostro livello di incertezza anche su qualcosa che può sembrare semplice, come prevedere il meteo ad un giorno, si rivela un impresa da calcolo delle probabilità. Il limite fisico è dovuto all’impossibilità di concepire ed analizzare con precisione tutte le variabili che influiscono sul clima. Appena se ne analizza una c’è n’è un’altra le cui proprietà ci sfuggono (principio di indeterminazione di Heisenberg). Quello matematico è dovuto all’impossibilità per i modelli climatici non lineari di terzo grado di calcolare, nonostante l’ausilio dei computer, risultati che non siano probabilistici. In altre parole, pur se tutte le variabili fossero contemplate, eliminando il limite fisico, non avremmo a disposizione modelli dinamici complessi capaci di restituire risultati puntuali.
Le attuali tecniche matematiche possono prevedere, con un minimo grado di incertezza, il movimento lineare di una pallina che si muove su un piano. Non considerano, spesso, un elemento importante, come l’attrito. Se già iniziano ad analizzare due variabili interagenti, i risultati si fanno più incerti. Quando passano a tre che evolvono dinamicamente in maniera caotica (come nel caso del clima), entrano nel campo dell’indeterminazione.
Comprendere la Natura con la matematica, che è da sempre riconosciuta come l’unico linguaggio possibile, è diventato oggi (o solo oggi è stato riconosciuto tale) un grande problema. Se non siamo capaci di avere risultati esatti o quasi esatti neanche in una delle scienze più progredite e studiate come la meteorologia, come possiamo immaginare di avere successo nelle altre con gli attuali strumenti?
Terza ed ultima lezione: la nostra capacita di predire eventi futuri con un approccio scientifico è molto scarsa. Forse, la consapevolezza di un’inafferrabile complessità dovrebbero indurci ad applicare le conoscenze scientifiche per imparare dal passato ed agire nel presente, piuttosto che speculare sul futuro.
Cosa ci insegnano, quindi, i disastrosi eventi meteorologici italiani di queste settimane? Che in un mondo complesso ed imprevedibile, dove anche la scienza deve essere al servizio della prevenzione invece che della previsione, un Paese come l’Italia dove si previene solo quando vi è l’interesse dei poteri forti ha poche speranze di superare indenne i prossimi imprevedibili eventi.
Poiché, però, né la fisica o l’ecologia della Terra possono essere cambiate e rese più facilmente prevedibili e neanche la scienza potrà andare molto oltre l’attuale livello di previsione, non resta che sperare che l’Italia, e tutti quei Paesi «indifferenti» come il nostro, inizino a prevenire nell’interesse di tutti e non a prevedere, nell’interesse «speculativo» di pochi.