La conservazione del patrimonio collettivo dovrebbe rappresentare un obiettivo prioritario della società contemporanea, ma al di là di roboanti proclami e superficiali verniciature esterne, nella pratica ciò non avviene quasi mai
Sta tornando alla ribalta il tormentone della cosiddetta «antipolitica», una forma esasperata di protesta sempre più diffusa, contro l’evidente degenerazione del cosiddetto «sistema partitocratico». E se poi si affrontasse la situazione dal punto di vista ambientale, il giudizio sarebbe ancor più drastico, perché la crisi di rappresentanza politica investe anche e soprattutto l’ecologia. Ecco perché ora, a caldo e sull’onda dello sconquasso elettorale (non solo italiano), è d’obbligo tornare a parlare della politica, di quella che un tempo era considerata «la nobile arte del possibile». Ma che oggi appare ben diversa: logora, di basso livello, menzognera, inaffidabile…
Cominceremo con una semplice domanda diretta: ma questi partiti sono davvero «contronatura»? E cioè insensibili ai temi ecologici, e sempre pronti a svendere un paesaggio, un litorale, una foresta o un parco naturale per il proprio tornaconto immediato? A giudicare da un’inchiesta del Centro parchi internazionale, si direbbe proprio di sì. L’indagine, lunga e accurata, ha raccolto non solo dichiarazioni e atti ufficiali, ma soprattutto una quantità impressionante di casi concreti: e prima ancora che venga pubblicata, se ne possono anticipare alcuni risultati.
Anzitutto una constatazione. La conservazione del patrimonio collettivo (paesaggio, demanio, acque, boschi, biodiversità) dovrebbe rappresentare un obiettivo prioritario della società contemporanea, ma al di là di roboanti proclami e superficiali verniciature esterne, nella pratica ciò non avviene quasi mai. Quello che normalmente accomuna tutte le forze politiche in campo (ovviamente con differenze più o meno marcate) è, invece, un cinico spregio per la natura, motivato da ragioni ideologiche, opportunistiche, elettorali… La prova più evidente riguarda soprattutto la Lega Nord: e cioè il partito più devastato, non a torto, nelle ultime votazioni. Vediamo perché.
Una forza politica nuova, di ampia base popolare, radicata tra campagne e montagne, attività produttive e cultura postindustriale aveva fatto illudere alcuni a ben sperare per il territorio. Non solo per la sua iniziale ribellione ai poteri corrotti, o per la scelta del colore verde, ma anche per la frequente ispirazione alla cultura dei Celti, i cui sacerdoti Druidi praticavano con forte convinzione il culto degli alberi, considerati loro numi progenitori. Ma nella realtà, la Lega ha svelato un volto ben diverso: e analizzandone la storia più o meno recente, sarebbe davvero difficile trovare segni convincenti di sue scelte coraggiose a favore dell’ambiente. Anzi: la sua azione sembra caratterizzata piuttosto dal culto dello sfruttamento delle risorse umane e naturali, del guadagno e del profitto per l’arricchimento proprio o del proprio clan, non importa se e quanto a danno degli altri. Il culmine venne assai bene espresso nel 2003 da uno dei capi indiscussi, di fronte alla rivolta del Mezzogiorno contro le scorie nucleari che il governo voleva scaricare in Basilicata: «Ma certo che le sbatteremo laggiù – avrebbe sentenziato – noi qui vogliamo che la nostra gioventù cresca sana e forte!». Di qui a un manifesto sulla superiorità della razza, il passo non sarebbe forse troppo lungo…
Sui connotati della Lega Nord è stato scritto molto, sia a livello antropologico sia politologico. Particolarmente interessanti sono lo studio di Lynda De Matteo «L’idiota in politica» (Feltrinelli 2011), che mette in luce il suo carattere di spettacolo buffonesco medievale condito di intemperanza lessicale, e quello di Marco Aime «Verdi Tribù del Nord» (Laterza 2012), che ne denuncia la pericolosa deriva di tipo tribalista. Ancor più decisa la condanna di Piergiorgio Odifreddi nell’articolo «Fine di un troglodita» (Repubblica 14 aprile 2012), in cui sono messi in risalto il progressivo imbarbarimento, l’ottusa xenofobìa e la sgradevole volgarità dilagante. Fino al libretto recentissimo di Furio Colombo «Contro la Lega» (Laterza 2012), che sottolinea il ruolo di un partito che invoca la secessione, esige il potere nel governo della Repubblica e ha ottenuto e usato, per anni, posti chiave senza altri obiettivi che la promozione personale dei capi e dei loro parenti e pupilli.
Non sembra tuttavia che sia stata ancora messa abbastanza in luce la sostanziale, profonda e antidemocratica avversità della Lega ai temi ambientali. Un esempio? Basterebbe pensare al referendum sulla caccia in Piemonte, ostacolato, rinviato e negato con ogni pretesto, proprio mentre l’Unione europea sta stigmatizzando e sanzionando ancora una volta le continue «deroghe» dell’Italia in campo venatorio, con ammende che noi tutti saremo poi costretti a pagare. Al fondo di questa genesi, figurano i soliti mali dell’Italia regredita a livello tribale: egoismo e ignoranza, e poi idiosincrasia per quel civile rispetto della fauna e dell’ambiente, che ci eleverebbe a livello europeo. Mentre nel doppiofondo, ben insonorizzato, si celano i veri motori degli abusi: sono i rumorosi interessi alle sparatorie dell’industria armiera, per vendere sempre più fucili e cartucce. Alla ricca storiografia della Lega mancherebbe ora quindi soltanto un saggio: l’analisi approfondita sul suo traboccante e disinteressato idealismo.