Intervista a Domenico Ragno
Approvato il Piano di Azione per il Contrasto e la Prevenzione della Diffusione di Xylella fastidiosa per l’anno 2022. Dopo nove anni non si scorgono iniziative nuove di indagini ma solo l’osservazione della situazione. Intanto si prova a «salvare» gli ulivi monumentali autorizzando degli innesti, un’operazione che «ha margini di rischio non quantificabili», a detta dall’Osservatorio fitosanitario della Regione mentre Cnr e Università ritengono insufficienti le ricerche condotte finora. Perché non si torna alla ricerca?
Qualche giorno fa la Regione Puglia ha approvato il Piano di Azione per il Contrasto e la Prevenzione della Diffusione di Xylella fastidiosa per l’anno 2022. Se si volesse sintetizzare in una parola, la filosofia che presiede questo Piano, si potrebbe utilizzare la parola «osservazione». È veramente deprimente constatare che dopo nove anni siamo ancora a questo punto, come se non esistessero altre vie.
Gli interventi sono nel solco della «tradizione», una metodologia che non ha dato alcun risultato, ingenerando la convinzione che non ci siano soluzioni. E ora, questa la novità, le attenzioni della Regione si rivolgono agli ulivi monumentali, con un’autorizzazione agli innesti, una valanga di denaro e speriamo che non sia un De profundis. E sì, perché, come ci dice Domenico Ragno «…l’Osservatorio fitosanitario della Regione sottolinea che l’operazione “ha margini di rischio non quantificabili”, mentre Cnr e Università ritengono insufficienti le ricerche condotte finora per garantire il successo dell’operazione su piante malate e consigliano, per aumentarne le probabilità di successo, di realizzare innesti preventivi su piante monumentali sane».
E intanto viene segnalato un nuovo pericolo, il Neofusicoccum mediterraneum.
Per avere un quadro della situazione, sapere quello che si può fare e una riflessione sulle correnti iniziative, abbiamo ascoltato Domenico Ragno, ex Direttore Arif che ha concepito e realizzato il Monitoraggio della Xylella.
Recentemente è stato individuato un nuovo mortale pericolo per gli olivi, che si aggiunge alla Xylella. Cosa ne pensa?
Il ritrovamento da parte del Crea del Neofusicoccum mediterraneum costituisce un’importante novità, in quanto conferma la complessità della situazione fitosanitaria che si è creata in Salento da molti anni per svariati motivi ambientali. I sintomi, assolutamente assimilabili a quelli della Xylella, hanno reso difficile l’individuazione di questa come di altre malattie, essendo le indagini da un certo momento in poi concentrate solo sul batterio. Probabilmente molti dei numerosi casi di piante «sintomatiche» ritrovate nei primi monitoraggi in Salento ma non attaccate dal batterio potrebbero essere imputabili a questo fungo, che pare ancora più letale della Xylella, che comunque rimane il pericolo principale per i nostri olivi.
Quindi cosa occorre cambiare nelle azioni di contrasto al batterio?
Più che altro si tratta di rivedere strategie e priorità, che dopo 9 anni dal ritrovamento ufficiale del batterio e molti di più dal suo radicamento reale nel Salento non possono più essere solo quelle dettate dall’emergenza. In questi anni non ci siamo fatti mancare niente: da quelli che «la Xylella non ci risulta» ai rimedi con la ricetta della nonna, dalle processioni religiose ai residenti sull’albero, fino ai nipotini della Santa inquisizione che si scagliano contro ogni cura, a caccia di stregoni da bruciare (metaforicamente) sui social. C’è stato un enorme stanziamento di fondi, ben superiore al mezzo miliardo di euro (quasi 20 volte l’importo dell’intero piano olivicolo nazionale che ammonta a 30 Meuro), sono state realizzate ricerche sulla resistenza di alcune piante, ecc. Rimane il fatto che la zona infetta è comunque passata da 8.000 a 650.000 ettari e sono morti o risultano seriamente danneggiati milioni olivi.
Ma il batterio è ancora eradicabile in Puglia?
L’unica eradicazione avvenuta sino ad oggi è stata quella dell’olivicoltura tradizionale, già in crisi economica e fitosanitaria da un ventennio, in alcune zone del Salento. Quella del batterio è parsa da subito impossibile, anche per il grande ritardo nella sua identificazione rispetto alla data di insediamento. Non a caso il territorio di tre province è stato dichiarato «infetto» dalla Commissione europea, proprio perché la Xylella è ritenuta ormai endemica e non si ritiene più realizzabile la sua eliminazione da quelle aree. Le misure di eradicazione, come ci impone la normativa, vanno invece rigidamente praticate nelle cosiddette «aree delimitate», nell’auspicio di riuscire impedire o limitare la diffusione del batterio, così come è avvenuto per il piccolo focolaio di Canosa.
Comunque l’utilizzo delle cultivar di olivo «leccino» e «FS17» resistenti al batterio ci permette di rilanciare l’olivicoltura con il «Piano di rigenerazione olivicola»
Queste cultivar sono ritenute «tolleranti» dal panel di esperti dell’Efsa (European Food Safety Authority) e «resistenti» dai ricercatori del Cnr di Bari e dal Comitato fitosanitario nazionale. Differenza di non poco conto, in quanto le piante «resistenti» contrastano lo sviluppo del patogeno e generalmente non contraggono la malattia, mentre quelle «tolleranti» si ammalano (come il leccino e l’FS17) ma senza che si verificano danni significativi per la pianta e la relativa produzione; esse costituiscono comunque un serbatoio di inoculo, sia pure meno virulento, del batterio. Infatti, nel Salento non è raro incontrare piante di leccino con sintomi più o meno evidenti della malattia; segno che la sperimentazione andrebbe consolidata nel tempo. Purtroppo, finora, dopo 6 anni di studi non sono state ritrovate cultivar di olivo con caratteristiche di resistenza al batterio, come ha concluso qualche mese fa nel meeting a chiusura del programma XFactors il gruppo di ricercatori che ha lavorato a questo obiettivo.
Questo vale pure per gli innesti?
La Regione Puglia ha destinato da svariati anni consistenti finanziamenti per la ricerca in questo campo, ma non si sono ottenuti i risultati sperati. Mi è capitato di verificare la cosa di persona. Nel Luglio 2018 come Direttore dell’Arif ero tra gli accompagnatori del ministro Centinaio nell’ispezione condotta in Salento. Fu visitato anche un campo sperimentale tra Presicce e Lido Marini, in cui veniva testata la capacità di resistenza alla Xylella degli innesti da poco realizzati con una quantità di varietà di olivo di diverse provenienze. Non conosco pubblicazioni sui risultati delle ricerche fatte sugli innesti per contrastare la Xylella e in particolare su questa esperienza, ma le immagini della stessa parcella sperimentale scattate meno di due anni dopo sono abbastanza eloquenti!
In questo contesto la Regione Puglia promuove una misura che finanzia con alcuni milioni di euro l’innesto degli olivi monumentali, infetti e non, con marze delle cultivar leccino e FS17. Un’operazione (già problematica in sé per l’impatto di una totale capitozzatura su piante ultrasecolari) da cui, visti i precedenti, prendono le distanze le stesse strutture che la propongono, che non si assumono responsabilità di sorta. Infatti l’Osservatorio fitosanitario della Regione sottolinea che l’operazione «ha margini di rischio non quantificabili», mentre Cnr e Università ritengono insufficienti le ricerche condotte finora per garantire il successo dell’operazione su piante malate e consigliano, per aumentarne le probabilità di successo, di realizzare innesti preventivi su piante monumentali sane. Insomma, un innesto sperimentale alla «io speriamo che me la cavo» a totale rischio e pericolo dei proprietari (e soprattutto delle piante). Comunque, ci penserei su molte volte prima di procedere ad un innesto di questo tipo.
Cosa pensa delle misure in atto, soprattutto per le aree infette?
Per le zone delimitate e quella indenne si è già detto, occorre rispettare le norme prescritte dalla Commissione europea. Allo stato attuale la politica prevista nelle tre province pugliesi in cui la Xylella è endemica è, nei fatti, quella della sostituzione degli olivi e degli oliveti infettati; non sono riconosciute e sostenute altre opzioni. In questa direzione vanno sia i finanziamenti diretti ai privati (nuove piantagioni, innesti, ecc.) che quelli destinati alla ricerca per nuove cultivar resistenti diverse da quelle locali.
Ciò comporta da un lato una ricaduta positiva costituita dalla ripresa in alcune aree della produzione olivicola; dall’altro, utilizzando il leccino e FS17 che contraggono la malattia si renderà permanente il serbatoio di inoculo del batterio esistente nelle zone di impianto o di innesto. Contestualmente, si tenderà ad azzerare la biodiversità olivicola, non essendo né il leccino né tantomeno l’FS17 cultivar autoctone.
La perdita di biodiversità si traduce anche in un danno economico per gli olivicoltori, se è vero che le speranze di valorizzare l’olio italiano, soprattutto quello pugliese che spunta i prezzi più bassi a livello nazionale, stanno soprattutto nella tipizzazione territoriale del prodotto, legandolo alla storia, alle tradizioni, all’ambiente. Molto chiaro a proposito è lo studio pubblicato qualche mese fa dall’Ismea e dalla Rete Rurale Nazionale.
Ma allora quali azioni è necessario realizzare in queste aree
Occorre evitare il disastro avvenuto in provincia di Lecce, cambiando approccio al problema e integrando quanto già si sta facendo con interventi che mirino alla tutela dell’esistente nelle zone infette. Questo sia per una difesa dell’agroambiente in sé che per il l’intrinseco valore, anche economico, che ormai ha il paesaggio storico dell’Olivo in molte zone. Tale valore supera spesso quello strettamente connesso alla produzione olivicola e favorisce investimenti anche in altri settori economici, a meno che qualcuno creda che arrivi gente da mezzo mondo e investa soldi in determinate aree della Puglia per fare l’agricoltore. Per questo occorre modulare gli interventi in base alle necessità, adattandoli alle reali condizioni e situazioni. Per esempio, qualche anno fa a Cisternino fu abbattuto il famoso olivo del Senatore Ciampolillo, da lui eletto a residenza parlamentare per bloccarne l’estirpazione. Questa operazione aveva allora un senso che oggi non avrebbe più, in quanto la Xylella si è insediata nella zona da tempo. Così come non so quanto sia utile decretare l’abbattimento di piante di olivo, spesso secolari, per diminuire il serbatoio di inoculo della zona, quando magari a poca distanza si finanziano nuovi impianti o innesti con le specie prescritte che con ogni probabilità svolgeranno appena infettate la stessa funzione.
Penso che sia nostro preciso dovere difendere oggi questi olivi dall’attacco della Xylella, cominciando a mettere in pratica anche in via preventiva tutti quegli interventi utili al rafforzamento delle difesa delle piante; qui non ci sono olivicolture in crisi da rilanciare ma un importante patrimonio da preservare ai fini della produzione, del paesaggio e dell’ambiente. Interventi che vanno dalle pratiche agronomiche che supportano la resistenza naturale delle piante (concimazioni, lavorazioni del suolo, potature…) a quelli che curano i sintomi della malattia. In poche parole, investire nella prevenzione e conservazione quanto e più che nel ripristino e negli indennizzi, mettendo, come si dice, in mano ai conduttori agricoli soldi veri e in tempi brevi per il lavoro che fanno in difesa di quello che ormai si può considerare un patrimonio della collettività intera. Di queste istanze dovrebbero farsi interpreti i proprietari e le comunità locali nei confronti della Regione e delle stesse associazioni di categoria agricole.
Ma come la mettiamo con il fatto che «non esistono cure contro la Xylella»?
È stato il dogma di questi anni, che ha condizionato fortemente le scelte adottate fino ad oggi. Si pretende giustamente un approccio scientifico alla lotta al batterio, ma mi chiedo quanto sia scientificamente corretta l’estrapolazione di esperienze di lotta alla Xylella realizzate in altri contesti territoriali, con altre specie vegetali, contro altre sottospecie del batterio, in diverse situazioni agroambientali, utilizzando metodi e mezzi differenti per essere utilizzate nella realtà pugliese a sostegno della tesi che non esistono cure per questa fitopatologia. Questi «trasferimenti» di esperienze sono poco giustificabili nel mondo della ricerca, soprattutto se riguardano un patogeno estremamente mutabile come la Xylella; un esempio è dato proprio dalla nostra sottospecie «pauca», che nei paesi d’origine del centro e sud-America devasta da anni gli agrumeti mentre da noi limoni e arance sembrano addirittura immuni dalla malattia. Senza contare che sono rintracciabili nella letteratura scientifica internazionale prima del 2013 solo rarissimi accenni ad attacchi della Xylella nei confronti di olivi, peraltro senza neanche una prova di patogenicità; per cui non poteva esistere alcuna esperienza di cura a proposito. Con un po’ meno fede e più razionalità scientifica forse oggi saremmo un pochino più avanti nella lotta al batterio.
Quindi ritiene possibili cure contro la Xylella…
Occorre capirsi sul termine «cura». Se si intende un intervento che comporti l’eliminazione totale e permanente del batterio dalla pianta, bisogna dire che attualmente non si conoscono soluzioni di questo tipo. Se invece interpretiamo questo termine nel modo in cui viene comunemente inteso, cioè una o più terapie che agiscano sui sintomi della malattia al fine di diminuirne la virulenza e potenziare le difese della pianta perché vegeti e produca (analogamente a quello che succede per tante altre fitopatie, dalla bolla del pesco, all’oidio o alla peronospera e via dicendo), lo ritengo possibile, purché supportata da adeguate ricerche sperimentali. La stessa Efsa nel valutare anni fa il cosiddetto protocollo Scortichini dichiarava come, pur non esistendo ancora cure in grado di eliminare la Xylella, nelle piante oggetto della sperimentazione si potevano rilevare una significativa riduzione della gravità della malattia e una forte riduzione di rami secchi rispetto ad alberi non trattati. Nel frattempo la sperimentazione è andata avanti e oggi la cura può vantare, con una ormai robusta produzione scientifica a supporto, un sempre maggiore utilizzo nel territorio.
Anche negli Stati Uniti è in commercio un prodotto specifico per la prevenzione e cura dei sintomi della malattia di Pierce causata dalla Xylella sp. multiplex.; ovviamente, per quanto detto in precedenza, è tutt’altro che scontata la trasposizione di questa cura nella realtà olivicola pugliese. La malattia di Pierce attacca la vite, è presente negli Usa da 120 anni e, nonostante si sia provato di tutto, non è mai stata possibile la sua eradicazione e si sta ancora aspettando una cura decisiva.
In definitiva, se il nostro obiettivo principale è la salvaguardia del patrimonio olivicolo nelle aree in cui saremo costretti a convivere con la Xylella diventata ormai endemica, le cure sintomatiche insieme alle buone pratiche agricole possono garantire la sopravvivenza delle piante e il mantenimento della produzione, conservando la biodiversità dei nostri olivi.
In conclusione, cosa propone?
Di affiancare altre opzioni a ciò che si sta facendo, sia per quanto riguarda la ricerca che per gli interventi sulle piante. È importante riprendere e finanziare la ricerca riguardo le diverse patologie che interessano gli oliveti, troppo presto abbandonata (Neofusicoccum docet), e convogliare risorse su quelle che permettono di intervenire sui sintomi della Xylella per fermare il decadimento delle piante, in attesa di una cura risolutiva, se mai verrà. Così come nelle aree infette è fondamentale promuovere e finanziare per tempo, per gli olivi monumentali in particolare, tutte le operazioni necessarie al rafforzamento delle difese delle piante e al contenimento dei sintomi della malattia.
Il governo regionale ha oggi una grande responsabilità per ciò che della «Terra dell’olivo» sarà consegnato alle future generazioni. Penso che nessuna strada vada trascurata per lasciare loro la migliore eredità possibile.
Ignazio Lippolis