֎Le abitudini perse o vietate che pure gestivano il territorio. Alcuni casi di marcia indietro ma non in Italia֎
La campagna mediatica per la conversione «green» «contro» i cambiamenti climatici sta raggiungendo toni parossistici con sollecitazioni perentorie al governo di «fare qualcosa». Ma cosa dovrebbe fare il governo? Emanare decreti e leggi sul clima ponendo limiti alle temperature minime e massime, regolando le precipitazioni e proibendo la grandine? Chi legge il giornale la mattina al bar ancora non ha ancora capito se certi eccessi meteorologici sono causati dai fumi dei motori a scoppio oppure è un fenomeno a prescindere, come ce ne sono stati in epoche storiche quando ancora non c’erano le automobili. Con le automobili elettriche si potranno risolvere problemi come lo smog in città ma da qualche parte questa energia elettrica va prodotta e allora, si esce dalla porta per rientrare dalla finestra, ci sarà sempre il problema di scorie radioattive in caso di centrali nucleari o di gas di scarico dei vari combustibili usati nelle centrali termoelettriche; ho l’impressione che l’energia eolica o solare non potrà soddisfare il consumo di fantastilioni di autovetture mondiali. Comunque sia, a nessun livello si è disposti a ridurre i consumi.
La complessità dei problemi non è solo ingegneria idraulica
Considerando come attenuare gli effetti delle bizzarrie dei cambiamenti climatici il discorso cambia. Per quanto riguarda lo straripamento dei fiumi si è già capito che bisogna creare dei bacini di espansione. Qui c’è l’ironia della sorte perché si andranno a ricreare acquitrini o paludi che sino a ieri la bonifica ha cercato di far scomparire dalla faccia della terra. Chi dovrà svolgere i lavori questa volta deve comprendere che il problema da affrontare non è solo di ingegneria idraulica bensì la complessità di un ecosistema fluviale. Prati che s’inondano stagionalmente ai lati di un fiume sono i luoghi di fregola di pesci e di anfibi e di una numerosa schiera di rettili, uccelli e piccoli mammiferi.
In Valpadana i bacini di espansione costituirebbero piccole oasi di salvezza per una piccola fauna che stenta a sopravvivere in una delle zone più antropizzate della Terra. Ci sono poi i terreni del Delta del Po in permanenza sotto il livello dei fiumi e del mare. Qui le idrovore non possono mai dormire. Mi sono sempre chiesto perché, con la costruzione di nuove case con il boom economico degli anni 1980 grazie alle vongole veraci, i Sindaci non abbiano imposto l’abitabilità solo dal primo piano in su in modo che se arrivasse un’alluvione si allagherebbe solo il piano terra adibito a magazzino o garage; gli inquilini non avrebbero bisogno così di rifugiarsi sul tetto ma di restarsene a casa. Nelle Alpi il problema è difficile da risolvere perché i versanti delle vallate fanno da imbuto concentrando la portata delle precipitazioni sui torrenti di fondovalle dove stanno anche gli abitati; vedi il recente caso di Bardonecchia.
Fuochi per bene e fuochi per male
Andando alla condizione opposta, i grandi incendi di boschi e monti. Con il grande caldo, un lungo periodo secco e magari il vento di favonio, partono vaste conflagrazioni colpose e dolose che con molta difficoltà e pericolo vengono combattute; è recente il tragico incidente di un Canadair sull’Etna. L’incendio è spesso così esteso e in zone talmente inaccessibili che l’azione dell’uomo è limitata ad un faticoso contenimento in attesa che le fiamme si estinguano da sole. Come fare per combattere questo fenomeno così devastante?
C’è da dire che nel caso di fuochi intenzionali si tratta probabilmente di pratiche una volta normali ma da tempo proibite per legge. C’era il debbio, ossia si bruciava un tratto di boscaglia per fertilizzare e rendere coltivabile un appezzamento. La produzione di carbonella era diffusa su tutte le Alpi e sull’Appennino. La gestione del castagneto richiedeva l’incenerimento del fogliame secco a terra. I boscaioli bruciavano la ramaglia che restava a terra. I pastori bruciavano per rigenerare il pascolo. Senza parlare poi della bruciatura della potatura degli ulivi (questa ancora permessa ma a stento) e della stoppia dopo la mietitura.
In passato quando queste attività erano consentite chi le praticava le sapeva anche tenere sotto controllo. Ora che sono vietate chi tenta ancora di praticarle appicca il fuoco furtivamente e poi scappa per evitare di essere arrestato, lasciando che le fiamme vadano dove non dovrebbero, generando le conflagrazioni spaventose che leggiamo sui giornali. C’è già però chi negli ultimi tempi sta riconsiderando l’uso lecito e gestito del fuoco per conservare l’ambiente e prevenire gli incendi incontrollabili, secondo l’antico aforisma: combattere il fuoco col fuoco. Nella vicina Francia si è tornati a bruciare legalmente i pascoli per rigenerarli, evitando la successione verso forme di vegetazione non desiderate e anche in Sardegna ci si sta muovendo in questa direzione.
Il pascolo preventivo
Un’altra soluzione per rendere meno combustibile il nostro territorio non coltivato è il pascolo brado di bovini come si faceva una volta. I bovini, in particolare le nostre razze rustiche, brucano le frasche degli alberi e tengono pulito il sottobosco. Non verrebbe a crearsi a terra quel cumulo di materia vegetale secca che è l’innesco in attesa di fiammifero. Anche in questo caso certi paesi con più fantasia e sensibilità ambientale del nostro stanno già muovendosi in questa direzione. Tra questi ci sono l’Olanda e la Germania le quali non avendo razze bovine primitive atte al compito in questione si sono messe a crearne una per lo scopo: l’Uro («bos primigenius»), il bovino selvatico progenitore di quello domestico. Con un carico ben tarato di questi grossi erbivori sul territorio designato, oltre a prevenire incendi si verrebbe a stimolare ed accelerare il ciclo produttivo di tutto l’ecosistema, generando una serie di effetti collaterali benefici faunistici e floristici, che qui sarebbe troppo lungo elencare. Giusto per citarne uno ben noto, è risaputo che la beccaccia si ferma nei boschi dove c’è bestiame. Al di là dei cambiamenti climatici.
Paolo Breber