L’illusione del pensiero e la presunzione dell’economia

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Esiste anche ciò che non siamo in grado di immaginare col potere della nostra mente! È questa l’amara constatazione filosofica che, negli ultimi decenni, ci è stata sbattuta in faccia dalle più eclatanti vicende socio-economico-ecologiche.

Da sempre la nostra specie ha avuto la presunzione di poter controllare, governare e prevedere i fenomeni del mondo e la realizzazione di quanto tutto ciò non sia affatto così, o lo sia solo in parte, ha gettato un’ombra di crisi sulla nostra civiltà. È proprio vero che Marx aveva visto lungo e che le previsioni sugli effetti dell’allontanamento dell’uomo dal mondo naturale non hanno mancato il bersaglio. Qualche tentativo predittivo, dunque, non è stato fallimentare. Purtroppo, però, la maggior parte delle proiezioni sul futuro derivanti dal passato e sul presente lasciano poco spazio all’autoconsacrazione dell’umanità. Tutte, infatti, hanno mostrato e mostrano che di pari passo allo sviluppo sociale e tecnologico, avanza a falcate più svelte il macigno di un profondo stravolgimento dei fragili equilibri planetari.

Il pensiero sociale si illude di poter governare l’astrazione, come avviene per il mondo artificiale, e grazie ad essa riassestare le leggi di Natura a proprio piacimento. Così, con la forza del numero, che sta diventando la più grave minaccia per il Pianeta e la vita (evoluta), l’uomo ha creduto di poter imbrigliare e domare i fiumi, governare le maree, imbavagliare le montagne, rapare a zero le foreste, spopolare i mari e bruciare carburanti a più non posso, senza subirne alcuna conseguenza.

L’illusione si è però infranta dinanzi alle allarmanti evidenze riguardanti l’estinzione delle specie, l’inquinamento atmosferico, l’aumento dei mutamenti climatici, le vittime ed i rifugiati ambientali, la perdita dei popoli indigeni.

Di colpo, ciò che sino a meno di vent’anni fa (all’incirca nello stesso periodo in cui nasceva il web) veniva definito il catastrofismo ambientalista o il mondo hippy green-ecologista (e che ancor’oggi i politici tendono a ridicolizzare), con accezioni se non altro dispregiative, ha mostrato tutta la veridicità dei suoi allarmi.

Purtroppo, attualmente, quello stesso «movimento verde» non è più scevro da legami ed interessi economici o politici, ma è stato fagocitato dalla grande macchina della globalizzazione. Quell’universo di pensatori come Henry D. Thoreau, Eugene Odum, Edward Goldsmith, etc. che era in grado di guardare alle cose del Mondo non come elementi isolati e distinti, ma come parti di un unico grande organismo, sembra essersi rarefatto negli ultimi tempi, in cui la base economica standard, che professa un sistema lineare e devastante di organizzazione delle attività di mercato, vede il pianeta come un’infinita fonte di estrazione e rilascio di materia.

L’omeostaticità, i feedback negativi, i cicli della materia, l’interdipendenza, la cooperazione, il flusso di energia, il valore stesso della vita sono stati messi da parte per liberare il campo al mercato, spietato, individualista, competitivo. Un processo produttivo che annichila l’esistenza dei singoli individui e fomenta il propagarsi della malattia all’interno del sistema globale. La chiusura del ciclo economico, proposta non solo dagli ecologisti, ma anche da coloro che potrebbero essere a ben ragione definiti come i primi economologisti (e Marx, appunto, ne era un degno rappresentante), appare essere l’unica ancora di salvezza per un’umanità alla deriva.

Osannato dal bisogno di sviluppo, incentivato alla crescita e spronato al consumo («comprate, così si riattiva l’economia» decantano a gran voce gli stolti leader politici) l’attuale modello Occidentale, trasferito in Oriente ed in tutti i Paesi in via di sviluppo, che pur criticandolo lo inseguono come somari bendati, si sta rivelando la più incredibile catastrofe dell’intera storia del Pianeta. Un mondo fatiscente, fondato sui soldi, sui debiti, sui bond, sugli spread e sulle banche, che paradossalmente sta devastando, nel concreto, il corpo di Gaia.

Ogni banconota stampata oggigiorno va ad acquistare un pezzo di foresta, un tratto di mare, la vita di una specie, il delta di un fiume, i minerali di un suolo e finisce presto, trasferito per mille vie, in un bacino di accumulo attrattivo che accentra le ricchezze e fomenta gli squilibri sociali.

In questo assurdo meccanismo, chi continua a perderci è la Natura, sempre più alle corde. Il mercato sta divorando tutto e sebbene i cicli della materia siano in grado di ripristinare, nel lungo periodo (geologico), tutto ciò che viene utilizzato e trasformato da qualunque essere appartenente alla Terra, quello che sappiamo per certo non può essere ricreato, è la vita stessa.

La fisica lineare, sviluppata in contemporanea al modello semplicistico di paradigma economico, ci dice che ad ogni causa corrisponde un effetto, ad ogni azione una reazione uguale e contraria. Ma, come recenti e più olistiche visioni hanno dimostrato, questo non è affatto vero. Noi, uomini, parte di un Tutto ben più complesso, non siamo in grado di prevedere quali effetti saranno generati dalle cause che noi stessi induciamo (e, tanto per fare un esempio, le ultime alluvioni in Italia e gli ancor più devastanti inondazioni in Thailandia, ne sono la dimostrazione). Ma l’umiltà non è mai stata una virtù della specie umana e così la presunzione dell’economia, capace di ignorare proprio ciò che ne permette l’esistenza stessa, associata all’illusione del pensiero hanno generato i mostri che oggi ci troviamo a combattere e la profonda crisi in cui stagna il XXI secolo.

È incredibile l’effetto che fa pensare come tutto questo sia potuto avvenire in meno di due secoli, non più di otto generazioni, dall’epoca dei trisavoli per molti giovani contemporanei. È inquietante riflettere su quanto di ciò che oggi diamo per scontato sia, in realtà, un prodotto dei tempi moderni, un’inezia nella storia del mondo. Lo stesso PC, oramai divenuto strumento indispensabile nella vita di ognuno, o Internet, osannato mezzo di democrazia che ha sconvolto le nostre vite, esistono da meno di un lustro. Il loro impatto su Gaia, l’immenso ecosistema che regge quel delicato compromesso tra la vita e la sua assenza, è stato incalcolabile.

In poco meno di qualche decina d’anni siamo passati dal podio dell’Universo, come pianeta, specie, presunzione, al fondo di un barile che ancora non abbiamo raschiato del tutto. Le illusioni che ci eravamo costruiti con la nostra economia lineare, con il sistema di libero mercato globale (in cui i più forti e prepotenti sono liberi di rubare ai più deboli, «il pesce più grosso mangia il pesce più piccolo», è un altro dei motti da leader), con l’indiscriminato sfruttamento delle risorse naturali è giunto ad un collasso. Ed incredibilmente, per colpa della stessa economia. È lei che fa crollare le dittature (vedi l’esasperazione della Libia o della Siria), cadere i governi (vedi le sorti di Italia, Spagna e Grecia), chiudere le aziende (vedi le vicende delle compagnie petrolifere nel Golfo del Messico o delle acciaierie industriali europee).

È l’economia che stabilisce il come ed il quando. Il perché ed il dove, però, lo decreta l’ecologia. Lo impone Gaia. Perché se finisce il petrolio, il mercato collassa. Se il mare si svuota, la pesca si arresta e se le foreste scompaiono, la vita aerobica sparisce.

Allora è chiaro che la grande illusione e l’immane presunzione cedono il passo alla crisi. Guai a parlare di crisi economica però, perché la crisi è del pensiero.

Anche le più solide teorie, come dimostra la relatività ristretta su cui si è basata tutta la fisica moderna (quindi, anch’essa, era fondata sull’illusione?) e che sembra debba essere radicalmente riscritta da una semplice quanto mai illuminante prova empirica (la Natura se ne infischia delle teorie umane), lasciano il campo alle evidenze. Anche le previsioni (le più accurate che possediamo, quelle del meteo, sbagliano addirittura a distanza di qualche ora), crollano dinanzi alla realtà.

Siamo esseri hic et nunc, in un mondo hic et nunc ed è questa l’unica certezza. Abbiamo costruito un universo fatiscente adattandolo ai nostri assurdi ed egoistici voleri. Abbiamo ignorato le leggi della Natura, che pochi illuminati (dalla «primavera silenziosa» di Rechel Carson al «prima che la natura muoia» di Dorst Jean) hanno tentato senza successo di ricordarci, ed ora non sappiamo più tornare indietro. Non sappiamo, neanche, se è possibile tornare indietro. La chiusura del ciclo, economico o ecologico che sia, passa sempre per una rivoluzione. Un cambiamento di materia, uno stravolgimento sociale, una trasformazione chimica. Come magistralmente ricordava Edward «Teddy» Goldsmith: «La civiltà tecnologica sopprime, annienta ciò che esiste, per sostituirlo continuamente con qualcos’altro. I prodotti sempre nuovi dell’invenzione umana – città, fabbriche, macchine, autostrade, frigoriferi, gadget elettronici – quel che chiamiamo la tecnosfera, hanno rimpiazzato sistematicamente il mondo vivo: il mondo della stabilità, della biosfera, il mondo che ha impiegato tre miliardi di anni per svilupparsi». Saremo capaci di chiudere il ciclo ed arrestare la crisi del pensiero sostituendo, stavolta, all’amata tecnosfera il mondo vivo?