> Perché questo dibattito. Gli altri interventi
Vorrei inserirmi in questo interessante dibattito partendo da un’osservazione del prof. Giorgio Nebbia, in particolare quella in cui afferma che: «Non destano meraviglia le lotte per la conquista di una maggiore fetta del potere televisivo, il più efficace strumento che oggi consente di incantare sempre nuovi acquirenti di merci, capace di creare nuovi miti e modelli da scimmiottare moltiplicando le merci inutili a scapito della conoscenza, della attitudine critica, dei rapporti sociali, tarpando le ali a qualsiasi lotta per l’emancipazione. Si pensi alla “perfezione” delle tecniche per produrre rumore che sovrasta le parole, alle chat lines in cui vengono scambiate banalità per indurre ad evitare di parlare (chat lines immaginate già nel 1951 da Ray Bradbury in “Fahrenheit 451”, come strumento inventato dal Governo per impedire la lettura, per impedire di pensare “ai fiori dei campi, ai gigli sereni”)».
Da un punto di vista storico la televisione in Italia conosce uno sviluppo imperioso a partire dalla metà degli anni 70 del secolo scorso. Il detonatore è costituito dallo sviluppo tecnologico che consente di mettere alla portata di molte tasche gli apparati di trasmissione. Si comincia naturalmente dalle radio (le cosiddette «radio libere») la cui messa in opera è davvero alla portata di tutti. Sorgono come funghi in ogni quartiere e sembrano in un primo momento realizzare quell’anelito di libertà sognata e rivendicata dai movimenti giovanili a partire dal ’68. E non è un caso se agli inizi queste radio trasmettano tante parole (dibattiti, interventi, commenti) e pochissima musica.
Il fenomeno radio fa aprire gli occhi su uno spazio completamente nuovo e apparentemente infinito: l’etere. Il passaggio alla televisione è breve ed è visto soprattutto in funzione politica: liberarsi dai lacci e lacciuoli della Rai per poter finalmente esprimere le proprie opinioni. Ideale sacrosanto, ma ahimè finito diversamente rispetto alle buone intenzioni iniziali. A inaugurare l’era televisiva sono alcune sentenze della Corte costituzionale che danno il via libera all’esistenza di emittenti a carattere nazionale, lasciando allo Stato solo il compito di regolamentare le frequenze. Dunque quello spazio che s’immaginava sconfinato si scopre piuttosto limitato e, soprattutto, ancora nelle mani dello Stato.
Ben presto il fenomeno tv passa, come era facile prevedere, da migliaia di emittenti sparse in tutto il paese ad alcune centinaia, di cui quattro-cinque a carattere nazionale. A raffreddare la spinta ideale iniziale sono i problemi economici. La pubblicità che in un primo momento affluisce copiosa, soprattutto quella che non può accedere ai grandi contratti della concessionaria Rai, ben presto inaridisce il suo corso. La concorrenza si fa spietata e per battere gli avversari e mantenere gli standard di ascolto occorre investire sui programmi e sull’informazione. Tutta roba che costa e molto di più della semplice strumentazione.
Proprio il problema dei costi e la forte concorrenza spingono a battere sentieri in Italia ancora inesplorati sia sulla strada dell’informazione sia dell’intrattenimento. Il calo della qualità è però inevitabile. Non solo di quella immediatamente percettibile dei vari programmi, ma soprattutto quella dei modelli che sono sottesi alla programmazione. E i modelli sono quelli della omologazione e della mercificazione. Due fenomeni molto studiati ma naturalmente «censurati» nel dibattito pubblico e che producono gli effetti più devastanti sul sistema Italia, ben al di là del «semplice» consumismo così ben fotografato da Nebbia.
Per omologazione non ci si deve soffermare al semplice indossiamo tutti gli abiti della stessa griffe e chi non lo fa è fuori. Esiste una (come dire?) «omologazione profonda» in cui si abbassano le capacità critiche individuali e si ragiona tutti allo stesso modo, soprattutto seguendo la stessa logica di profitto individuale del tipo «i furbi hanno sempre ragione e io sono il più furbo». Un fenomeno devastante sul piano sociale che rappresenta una perversa evoluzione del concetto di massa già analizzato dagli studiosi americani. L’evoluzione consiste soprattutto nella finalizzazione politica e non più solo commerciale della omologazione. È, in altri termini, quel complesso meccanismo che in Italia porta all’affermazione di Berlusconi come leader politico. La tv non gli crea solo consenso, ma lavora in profondità a creare una razionalità omologata al suo pensiero. È la caratteristica, o se si vuole l’anomalia tutta italiana, che perdura e si rafforza fino ai giorni nostri. Questo spiega perché scandali, accuse e processi non sono sufficienti a far scendere più di tanto i consensi: una larga fetta di italiani si identifica con lui perché è stata televisivamente svezzata dai suoi programmi. Quegli italiani cioè sono omologati non tanto nella scelta di un prodotto o di un politico, quanto nel livellamento al basso delle capacità critiche e valutative, per cui alla fine risulta autoritativa soltanto la parola del leader. Si spiega così il fenomeno dell’uomo-partito.
Tutto questo Marx non poteva prevederlo, pur avendo avuto qualche felice intuizione. Ai suoi tempi i giornali riuscivano certamente a condizionare il dibattito pubblico e a creare consenso attorno a idee e persone, ma non possedevano certo la capacità di svuotare da dentro le coscienze imponendo oltre che modelli di comportamento, modelli di pensiero. Marx dunque non poteva arrivare a preconizzare il fondamentale ruolo assunto dalla comunicazione nello sviluppo della società capitalistica, arrivando la comunicazione stessa a sublimare la sua funzione di merce in strumento per la creazione di nuovi bisogni il cui soddisfacimento passa ancora attraverso la comunicazione. Per rendersi conto di tutto questo basta guardare un telegiornale: i politici si esprimono solo per slogan o con frasi a effetto, strumenti tipici della comunicazione televisiva. Davanti alle telecamere non hanno possibilità di esprimere concetti profondi. E a furia di non poterli esprimere, non li elaborano più. Lo scopo diventa impressionare gli ascoltatori, affinché quella dichiarazione sia poi riverberata dalla stampa il giorno dopo e ripresa ancora dalle tv. Il tutto come in un deformante gioco di specchi. Se il capitale punta a moltiplicare se stesso, la comunicazione riesce a farlo meglio e più velocemente.
L’altro concetto di cui si parlava, la mercificazione, è più evidente e percettibile. Come esige il capitalismo, anche nella società della comunicazione ogni cosa è ridotta allo stato di merce: merci che possono essere acquistate e vendute. Come le idee, ma anche i corpi, il territorio, l’aria che respiriamo. Per rendersene conto si pensi al successo di programmi fintamente informativi che speculano sul dolore delle persone vittime di tragedie: la madre cui hanno ucciso la figlia; il padre che deve difendere il figlio in carcere; il giovane che ha perso la moglie in un crollo e via di questo passo. Il dolore che pure la grande narrativa ha spesso usato come soggetto della comunicazione non è narrato, studiato, elaborato nella prospettiva di una crescita umana, ma è sacrificato sull’altare dello share. Quanto più è scioccante, tanto più piacerà al pubblico, che più numeroso guarderà quel programma, al quale si rivolgeranno più inserzionisti i quali saranno disposti anche a pagare tariffe più alte. Non è un mistero che sia ormai molto diffusa anche da noi la pratica di retribuire le persone che «vanno a piangere in tv». Purtroppo quello scambio simbolico analizzato da Baudrillard, in cui l’attività culturale creativa fornisce alternative ai valori capitalistici della produzione e dello scambio, è clamorosamente smentito e la comunicazione, e ahimè sempre più spesso anche l’informazione, sono merci a tutti gli effetti e per di più con la diabolica capacità di mercificare tutto ciò che toccano: dalle idee ai valori.
Si consideri anche quanto accade in campo strettamente culturale: gli scrittori sono imposti dalle case editrici che decidono chi e perché deve vendere di più e dunque passare come il più bravo e credibile. I libri scalano le classifiche né per i contenuti né per i pregi narrativi, ma solo per il numero di recensioni (tutte favorevoli, of course) e le comparsate televisive degli autori. Ci sono «scrittori» che compaiono e scompaiono nello spazio di un semestre. Quali idee hanno dato al patrimonio collettivo? In genere nessuna, se non quella appunto che vendendo fumo, ma ben supportato dai media, si possono fare e far fare soldi.
In un siffatto contesto come si può prevedere un ritorno alla politica e al primato dell’uomo sulla merce, come Marx immaginava? Anche la rivoluzione (soluzione estrema prospettata dal filosofo di Treviri) si può svolgere ormai solo all’interno della comunicazione: basta guardare alla cosiddetta «Primavera araba» per rendersene conto: cosa sarebbe stata senza internet e senza quello slogan dall’enorme efficacia mediatica?