Editoriale

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Rimango sempre perplesso difronte alla contraddizione umana fra conoscenza e azione. La città è un caso del genere. Da quando si parla dell’urbanizzazione umana? da quando si insegue un modello di città ideale? Praticamente da sempre.

E, a sua volta, all’interno di questo problema, il dramma delle periferie, dei quartieri ghetto, delle violenze… Zone oscure delle aree urbane abitate dai «rifiuti umani», un termine che da sempre è un atto di accusa contro l’organizzazione della società, dalla schiavitù in poi (cioè da sempre…).

Da quando il Castello ha smesso di essere il luogo aggregante e organizzatore sono sorti tanti «castelli», simbolo del potere dei più ricchi. Cioè di coloro che hanno trasformato in denaro la forza lavoro. E così, nei vari corsi e ricorsi storici, tutto è cambiato per restare tutto come prima.

Oggi l’uomo è di fatto prigioniero della città: i negozi, le merci, la salute, il lavoro, il tempo libero tutti strumenti del bisogno, reale o indotto, ma di fatto le forme di un potere immanente e pervasivo.

È stato tranciato di netto il rapporto tra uomo e natura che dava una chance all’esistenza umana perché basata sulla conoscenza, sull’autodeterminazione, sulla consapevolezza dei valori e dei bisogni profondi di cui ogni essere umano ha bisogno.

Le indagini che da decenni suonavano l’allarme sulla corsa verso le città, sulla conseguente sovrappopolazione e i relativi problemi, sull’affollamento delle zone costiere… sono state solo capaci di dare l’allarme. Secondo «Revision of World Urbanization Prospects», circa il 55 per cento della popolazione mondiale vive in paesi e città, con un livello di urbanizzazione che si prevede possa raggiungere quasi il 70 per cento entro il 2050. Ma questa conoscenza non si è trasformata in ricerca di nuovi modelli aggreganti, in facilitazioni per nuove autonomie, in cambiamento della scala dei valori.

Certo, sappiamo bene che qualcosa sta cambiando, che c’è un ritorno alla natura, un fiorire di nuove conoscenze, una curiosità che è il risultato di una nuova consapevolezza. Persino nelle città sorgono zone aggreganti più umane, più fantasiose e che sono veri laboratori per orizzonti ancora in fieri.

Anche in aree geografiche del pianeta dove si sono vissute altre esperienze c’è un percorso che sembra orientato verso lo stesso punto dove ora cerchiamo faticosamente di arrivare anche noi.

È una strada lunga, faticosa e irta di enormi difficoltà perché deve attraversare un mare pieno di sirene. Ci si dovrà fare forza e fare riferimento a visioni globali cancellate nella folle corsa verso un paradiso inesistente e che sta diventando il nostro inferno.

 

Ignazio Lippolis