Molto più chiaro del ben noto parente della savana da cui trae origine, rappresenta uno dei più incredibili adattamenti alla vita nelle condizioni estreme: le sue macchie scure sono rade e sbiadite, il suo mantello sembra fatto apposta per mimetizzarsi in quel paesaggio senz’acqua
Immensa distesa assolata, il Sahara è il deserto a noi più vicino, anche a livello emotivo: e non vi è chi, pur non avendolo percorso, non custodisca nel proprio immaginario recondito lo spettacolo delle dune infinite, delle carovane di dromedari, delle inesorabili pietraie e degli spettacolari affioramenti rocciosi.
Ma più a sud del Sahara, tra Algeria, Mali e Niger, prima che all’orizzonte si scorga come un miraggio il profilo di qualche oasi, accompagnata dai timidi segni della savana ormai prossima, esiste una landa desolata e inospitale che nessuno vorrebbe mai percorrere; un luogo del tutto privo di acqua, dove sembra non affiori alcun segno di vita animale o vegetale.
I Tuareg lo chiamano Ténéré, vale a dire il deserto dei deserti. Non solo le carovane, ma anche i fuoristrada in colonna e persino i mezzi più collaudati, come quelli che si sfidano nella Parigi-Dakar, fanno tutto il possibile per evitarlo. Anche affacciarsi per un poco su quel mare di sabbia può suscitare emozioni indimenticabili, un misto di attrazione e paura come spesso avviene di fronte a ciò che non si conosce. Si potrebbe infatti pensare che un luogo simile, estremamente povero di vegetazione, non ospiti neppure un animale: eppure non è proprio così. Di tanto in tanto, tra voci e storie circolanti nel mondo dei carovanieri, emergeva la visione fuggevole d’un animale delle dimensioni d’un grosso cane: ma snello, veloce, di colorito tanto chiaro da confondersi con le sabbie dominanti. Non si conosceva alcuna specie di mammifero che corrispondesse alla descrizione, né che fosse in grado di sopravvivere in quelle condizioni. Qualcuno si chiese se per caso non si trattasse di veri e propri levrieri, capaci di percorrere il Ténéré senza mai farsi afferrare.
Allora esploratori e viaggiatori, ricercatori e naturalisti incominciarono a considerare quei suggestivi racconti narrati dai Tuareg al crepuscolo, sorseggiando il tè del deserto, come una vera e propria leggenda senza fondamento scientifico. E rinunciarono a qualsiasi ricerca troppo disagiata e rischiosa. Ma un fotografo naturalista francese, animato da vero spirito di indagine criptozoologica, non volle arrendersi, e decise di andare fino in fondo. E più insisteva nei tentativi, più sentiva di essere vicino a quella verità che ancora sfuggiva a tutti. Ci vollero ben tre anni di lavoro, vale a dire 800 giorni di spedizione: ma alla fine Alain Dragesco, accompagnato da un esperto Tuareg, incontrò finalmente Adèle, il ghepardo bianco, mitico corridore del deserto alla cui esistenza nessuno voleva credere.
Una piccola famiglia di tre individui, probabilmente non l’unica con quelle caratteristiche. S’avvicinò pian piano a uno di loro, e vide che non fuggiva, ma si appiattiva in un avvallamento sabbioso per confondersi con l’ambiente. Lo fotografò, rendendosi subito conto del fatto che l’animale era molto fragile, e cadeva quasi in preda a convulsioni se qualcuno lo disturbava: perciò si allontanò subito, lasciandolo di nuovo in pace nella sua sconfinata solitudine.
Il Ghepardo del Ténéré, molto più chiaro del ben noto parente della savana da cui trae origine, rappresenta uno dei più incredibili adattamenti alla vita nelle condizioni estreme: le sue macchie scure sono rade e sbiadite, il suo mantello sembra fatto apposta per mimetizzarsi in quel paesaggio senz’acqua. Si ciba del poco che gli capiti d’incontrare, soprattutto nelle ore più fresche, in quelle lande di fuoco: rettili, insetti e soprattutto topi saltatori del genere dei gerbilli.
Se per fortunata combinazione avvista un giovane dromedario smarrito, o una gazzella sbandata, insegue e afferra quella preda che gli garantirà la sopravvivenza; ed è capace di raggiungere, ma solo per brevissimi tratti, la velocità di circa 100 chilometri orari.
Le scoperte di Dragesco non si limitarono però al mitico «ghepardo bianco»: in un triennio di tenaci ricerche accertarono la presenza di almeno 70 specie di animali, tutti assai poco visibili ai comuni viaggiatori: anche qualche uccello, e persino mammiferi come sciacallo, iena e occasionali antilopi avevano trovato modo di sopravvivere in quelle zone inospitali.
La lezione offerta dal Ghepardo del Ténéré è tanto semplice, quanto istruttiva: in ogni angolo della terra la natura ci stupisce, superando ogni nostra fantasia. Pochi anni dopo il successo del Sahara, un gruppo di ricerca europeo ritrovò viventi tra i canyon dell’Iran piccole famiglie del Ghepardo asiatico, che si diceva scomparso: e ricerche analoghe stanno svolgendosi tuttora in altre parti del Medio Oriente e della Penisola Araba. Dove, tra gole e montagne, pietraie e deserti, si sono incontrate persino piccole popolazioni relitte del rarissimo Leopardo arabo, che ancora vive certamente nel deserto della Giudea. E forme affini, ma molto frammentate, sopravvivono anche nel Sinai e più a settentrione, dalla Turchia al Caucaso e dall’Afghanistan al Turkmenistan.
Del resto, l’elusività dei felini è talvolta davvero incredibile: e capita qualcosa di simile anche con il Puma della Costa Orientale degli Stati Uniti, e delle sue zone palustri meridionali, quest’ultimo noto anche come la leggendaria Pantera della Florida. E per restare più vicini a noi, il caso della Lince in Europa è davvero emblematico: creduta estinta in Olanda e Belgio, Francia e Italia peninsulare, Bulgaria e Grecia, si cela ancora negli angoli più remoti delle montagne e delle foreste, beffandosi della sicumera di quanti vorrebbero ancora negarne l’esistenza. E dimostrando ancora una volta, se fosse necessario, che il piccolo uomo ha ancora molto da apprendere dalla grande natura.
Franco Tassi