Cervo

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Quando si incominciò a scoprire, anche in Italia, il mondo dell’ecologia e a comprendere l’urgenza di salvare il patrimonio naturale, ben pochi avrebbero ritenuto realistico e possibile far tornare quest’animale così grande e affascinante tra le nostre montagne, in una penisola ormai fortemente battuta da legioni di cacciatori, occupata da opere dell’uomo spesso incompatibili con l’ambiente, ed invasa periodicamente da orde di gitanti

La storia del nobile Cervo nel nostro Paese, e specialmente nell’Appennino, è davvero istruttiva. Signore delle foreste, un tempo considerato ambito trofeo di caccia, presente e diffuso quasi ovunque nei secoli scorsi, era stato vittima di caccia eccessiva e di efferato bracconaggio, soprattutto negli ultimi duecento anni, al punto da scomparire completamente tanto dall’Appennino che dalle stesse Alpi nell’ultimo dopoguerra: e cioè appena mezzo secolo fa. Sopravviveva soltanto con un piccolo nucleo autoctono al Gran Bosco della Mesola, tra il Po di Goro ed il Po di Volano, mentre altri limitati popolamenti ricostituiti qua e là provenivano tutti da immissioni artificiali, più o meno recenti. Sporadici individui potevano talvolta giungere in Italia valicando le Alpi, ma non riuscivano a formare popolazioni stabili. Quanto al Cervo sardo, si trattava di una forma alquanto diversa, nettamente separata da quelle continentali.

Quando si incominciò a scoprire, anche in Italia, il mondo dell’ecologia e a comprendere l’urgenza di salvare il patrimonio naturale, ben pochi avrebbero ritenuto realistico e possibile far tornare quest’animale così grande e affascinante tra le nostre montagne, in una penisola ormai fortemente battuta da legioni di cacciatori, occupata da opere dell’uomo spesso incompatibili con l’ambiente, ed invasa periodicamente da orde di gitanti.
Il ritorno del Cervo tuttavia era possibile, così come quello del Capriolo suo parente minore: e venne attuato, come parte della Vasta Operazione Ripopolamento, a partire dall’anno 1969, in cui iniziò la ripresa di quel Parco Nazionale d’Abruzzo che, abbandonato per lunghi anni all’attacco dei vandali speculatori, sembrava ormai irrimediabilmente perduto. Proprio lì sorse subito, e fu poi realizzata concretamente, con scarsi mezzi e tra mille difficoltà, una bellissima idea: «Riportiamo la vita nell’Appennino». Un progetto in quel momento assolutamente innovativo, se non addirittura rivoluzionario, che venne presentato ufficialmente l’8 agosto 1971 alla Festa della Montagna dell’Italia Centrale sul Monte Sirente; e che venne benedetto con il lancio di due caprioli, tra gli applausi di una folla stupefatta ed ammirata.

Ma, tornando al Cervo, prove storiche della sua presenza nel Parco, e nel resto dell’Appennino centromeridionale, non mancavano davvero. Tra le più valide e cospicue, meritano d’essere ricordate le circostanziate notizie fornite nell’anno 1926 dalla Relazione di Erminio Sipari, Fondatore e primo Presidente del Parco: e del resto una delle valli più splendide e segregate, la Val Cervara, conservava nel nome stesso il ricordo dell’antico signore dei boschi. Ma notizie interessanti affioravano anche altrove: basti ricordare quella, assai poco nota, del Magliano, che nel 1970 ricordava d’aver assistito da ragazzo «all’arrivo in Lagonegro, portato da alcuni cacciatori, dell’ultimo cervo ucciso nel Sirino». E soprattutto la citazione di Norman Douglas nel suo straordinario libro «Old Calabria», da cui si desume che all’inizio del secolo scorso il cervo doveva essere ancora presente, pur se non in grande quantità, sul massiccio del Pollino e nelle montagne circostanti.Il primo lancio di cervi provenienti dal Parco del Triglav, in Slovenia, avvenne al Parco d’Abruzzo con modalità che sarebbe troppo complicato oggi hanno assunto atteggiamenti più concilianti verso gli animali e la natura, molto si deve al fatto che da ragazzi furono spettatori di tali avvenimenti.

Alla fine del 1975, già 64 cervi erano stati liberati nel Parco: la loro progressiva diffusione, con la conquista del territorio, la riproduzione e la difesa dagli attacchi dei predatori, era incominciata. Oggi il Cervo è presente ormai in tutto il Parco (50.000 ettari), e nel più vasto Pre-Parco (70.000 ettari), con una consistenza valutata in base ai più recenti censimenti a circa un migliaio di esemplari; e si è propagato ben oltre, fino al Molise, al Velino e alla Maiella.
E così, mentre le Alpi venivano riconquistate spontaneamente dal Cervo, che valicava le montagne provenendo dai Paesi più civili dove non era stato completamente sterminato, anche nell’Appennino il suo ritorno diventava realtà, grazie ad un oculato intervento dell’uomo: né sarebbe stato possibile diversamente. Oggi si contano quasi 50.000 individui nelle Alpi, e forse intorno ai 5.000, ma destinati a sicura espansione, nell’Appennino. Qui l’esempio antesignano offerto trent’anni fa dal Parco d’Abruzzo ha incominciato a trovare convinti proseliti. Negli anni Novanta sono stati reintrodotti cervi alla Maiella e al Sirente-Velino, e agli albori del Terzo Millennio anche il Mezzogiorno s’è destato, operando analoghi ripopolamenti nel Parco del Pollino. L’ultimo intervento, che si aggiunge all’ormai nutrita lista, è quello del Parco Nazionale Gran Sasso-Monti della Laga, dove il 28 febbraio 2004 sono stati liberati 21 cervi provenienti dalla Carinzia (Austria), e sembra godano buona salute.
C’è un futuro anche per il Cervo, quindi, tra le nostre foreste e montagne. Di questo dovremmo tutti gioire, anche se non poche minacce sembrano spesso incombere sul futuro dei Parchi Nazionali italiani. Ma quel che è certo, è che quel messaggio di speranza, «Riportiamo la vita nell’Appennino», lanciato dal cuore d’Abruzzo tre decenni or sono, è stato ormai da molti compreso, e positivamente trasformato in realtà.