Dall’abete al corbezzolo

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Al Natale sono consacrate oltre all’abete altre piante dalle storie affascinanti e dalle fantastiche proprietà. Gli antichi Romani in occasione dei Saturnali, nei giorni che precedevano il solstizio d’inverno portavano ramoscelli di agrifoglio come talismani. Ritenevano che l’arbusto potesse tenere lontani i malefici, tale proprietà gli viene riconosciuta fino a i giorni nostri. Sarà per via delle foglie coriacee e accartocciate munite di spine che si è pensato ad una sua funzione di difesa, mentre i frutti globosi e di colore rosso acceso che maturano in autunno e si conservano per tutto l’inverno si associano facilmente al sole e alla sua rinascita legata al Solstizio, risultando così ben auguranti per l’anno nuovo in arrivo. Per tale ragione in altri Paesi europei come la Francia, l’Inghilterra, la Germania, la Svizzera, i contadini appendevano l’agrifoglio sulle porte delle case e delle stalle al fine di allontanare sortilegi e propiziare la salute e la fecondità degli animali.

L’usanza nordica di regalare il vischio in occasione del Natale, magari vestito a festa con una allegra doratura, si è diffusa ovunque. Questa pianta parassita, in grado di vivere senza affondare le radici nella terra, è divenuta ben augurante perché si riteneva discesa dal cielo, si credeva nascesse là dove era caduta la folgore, simbolo della discesa della divinità. Un preciso rituale regolava un tempo, presso i Celti, la raccolta del vischio: i sacerdoti Druidi, in vesti bianche, alla presenza di due tori bianchi, successivamente sacrificati, recidevano con un falcetto d’oro la pianta e la depositavano su un panno anch’esso bianco. Al vischio, fin dall’antichità, è sempre stato riservato un importante posto a livello religioso perché ritenuto simbolo di rigenerazione e di immortalità. Nell’Eneide, il Ramo d’oro/vischio è utilizzato da Enea per scendere nel Regno dei morti. Nella successiva cristianizzazione della simbologia pagana la pianta divenne emblema del Cristo. Questo per la natura solare del vischio per via della nascita dal cielo. Anche Cristo è luce del mondo ed è nato in modo misterioso. Allegoricamente secondo i Padri alessandrini, anche l’umanità al pari di Enea ha bisogno di attraversare la vita e risorgere dal peccato attraverso il Ramo d’oro/Cristo quale grazia santificatrice. Il vischio compare spesso nei rituali magici, lo si ritiene capace di fugare malocchio, demoni e malefici vari, a questa pianta, tra le tante virtù veniva attribuita anche quella di apportare fertilità.

Altra pianta solstiziale è il corbezzolo, cespuglio diffuso nell’area mediterranea, soprattutto nel sottobosco delle pinete litoranee. Presenta fiori di colore bianco a forma di campanula, particolarmente graditi alle api, che sbocciano mentre sulla pianta vi sono i frutti, bacche rosse, globose dalla superficie granulosa. Ricordiamo che il colore bianco e quello rosso sono i colori dell’alba solstiziale e se a questi aggiungiamo il verde delle foglie comprendiamo facilmente perché il corbezzolo «tricolore» nell’Ottocento divenne simbolo dell’unità nazionale.
L’usanza dell’abete natalizio era venuta meno nelle tradizioni italiane con la cristianizzazione delle popolazione nordiche e non, per riapparire all’inizio del Novecento per diffondersi poi massicciamente nel dopoguerra. Al contrario, rimase viva


per lunghi anni la tradizione dell’accensione del ceppo o ciocco natalizio, attualmente però rimane ristretta a piccole comunità che hanno resistito al processo in atto dappertutto di sradicamento delle identità. Il ceppo chiamato in tedesco jul e calendau o chalendel in francese, denominazione che fanno riferimento chiaramente al periodo del solstizio è ritenuto unanimemente il sostituto dell’abete come albero natalizio. Il ciocco ardente, si diceva nelle campagne servisse per «scaldare il Bambino Gesù», e doveva bruciare fino all’alba del giorno di Natale, ma non doveva consumarsi completamente prima dell’Epifania. Interpretato in senso cristiano il ceppo è simbolo di Cristo Salvatore dell’umanità e Sole di giustizia, il calore sprigionato serviva a scaldare i dodici mesi dell’anno. Il carbone e la cenere venivano sotterrati allo scopo di difendere i prodotti agricoli dalle intemperie, una parte veniva conservata per scongiurare all’occorrenza le tempeste.
Altra pianta natalizia secondo la tradizione è il ginepro. Piccolo albero, molto spesso un arbusto, resistente al freddo, pioniere dei prati e dei pascoli incolti. Tra le piante medicinali ha occupato da sempre un posto invidiabile. Viene citato nel Papiro di Ebers (1700 a.C.) dove sono raccolte le pratiche erboristiche egizie, lo esalta Discoride, Greci e Romani ne bruciavano il legno come incenso. Una leggenda narra che durante la fuga in Egitto, allorché la Sacra Famiglia stava per essere raggiunta dai soldati di Erode, la Madre di Dio chiese aiuto alla vegetazione circostante, l’unica pianta ad offrire protezione dei suoi rami fu il ginepro. Allontanatosi il pericolo la Vergine lo benedisse predicendogli l’alto onore di fornire il legno per l’albero della Croce. Fino all’inizio del secolo scorso nelle campagne emiliane veniva bruciato un ramo di ginepro la sera di Natale, di San Silvestro e dell’Epifania. Come per il ciocco, il carbone veniva utilizzato durante l’anno in diversi rimedi di tipo superstizioso.

Abbiamo visto le diverse e forse poco conosciute valenze simboliche e ben auguranti che soprattutto in passato venivano attribuite alle piante legate al Solstizio d’inverno e al Natale. Alla domanda se siano superstizioni, rispondiamo con le parole del già citato e da poco scomparso Alfredo Cattabiani, personaggio che aveva trovato una sintonia con la natura come pochi altri: «Attribuiamo a queste piante soltanto la funzione di portafortuna, forse. Ma cos’è una superstizione se non ciò che sopravvive a se stesso, ovvero la lettera morta? La quale lettera morta può riacquistare vita poiché lo spirito soffia dove vuole e quando vuole può sempre rivivificare i simboli e i riti, e restituire loro, con il senso perduto, la pienezza della virtù originale». In realtà, osserva lo stesso Cattabiani, ogni essere vivente vegetale e non, è «la rappresentazione di uno o più archetipi nascosti da un velo impalpabile che soltanto l’evocazione della mente può rendere più o meno trasparenti». Se la nostra mente, coadiuvata dalla sensibilità, è in grado di percepire quanto è nascosto sotto l’oggetto simbolo, possibile fare una profonda esperienza di tipo spirituale. Ernst Jünger che della natura ha fatto la sua principale fonte d’ispirazione giunge ad


affermare: «…se l’animo si distoglie dalle cose umane e si volge alle piante, agli animali e ai minerali, non è affatto un errore, come a volte si sente dire. Quell’atto può essere il segno di un puro sforzo di autoconservazione, il desiderio di prendere parte ad una esistenza superiore. Quando tutto è silenzio le cose cominciano a parlare; pietre, animali e piante diventano fratelli e sorelle e comunicano ciò che è nascosto».
(Fonte Corpo Forestale dello Stato)