La ricerca di indicatori fisici dell’economia è oggi ancor più necessaria per far fronte ad una ineluttabile legge della natura, quella della scarsità
Gli esseri umani sono capaci di misurare il «valore» delle cose, delle merci e dei servizi, soltanto in unità monetarie. Su tale indicatore si basano le misura dell’economia, degli scambi, dei prezzi. Il valore in unità monetarie fornisce informazioni distorte sui fenomeni economici che sono basati non sullo scambio di soldi, ma sullo scambio di materia. Le merci e i beni, e i servizi che anch’essi richiedono beni materiali e merci, si producono e usano non a mezzo di denaro, né a mezzo di merci, ma a mezzo di natura. Del resto Carlo Marx, nella «Critica del programma di Gotha», già un secolo e mezzo fa aveva scritto che la natura è la fonte dei valori d’uso e di essi è fatta la ricchezza reale.
Da anni esiste un movimento diretto a cercare degli indicatori del valore delle merci (userò questo termine per riferirmi a beni materiali e a servizi che richiedono, tutti, beni materiali) in unità fisiche. La produzione e l’uso delle merci richiede dei beni tratti dalla natura, in parte comprati con denaro (i minerali estratti dalle cave o dal sottosuolo che hanno un «proprietario»), in parte ottenuti senza alcuno scambio monetario (l’ossigeno dell’aria per la respirazione, l’anidride carbonica dell’aria per la fotosintesi, l’acqua del suolo o del mare), e generano delle scorie che talvolta vengono reimmesse nei corpi naturali senza pagare niente (i gas della respirazione o della combustione), talvolta vengono immessi nei corpi naturali previa qualche operazione di trattamento che ha un costo monetario.
Nel complesso possiamo descrivere gli aspetti che realmente contano nell’economia come una circolazione natura-merci-natura.
La ricerca di indicatori fisici dell’economia è oggi ancor più necessaria per far fronte ad una ineluttabile legge della natura, quella della scarsità. Per il principio di conservazione della massa la massa di beni che entrano in un processo di produzione e di consumo deve essere uguale alla massa dei prodotti che si trovano alla fine. Ma per quello che Georgescu-Roegen ha chiamato ironicamente il «quarto principio» della termodinamica, a livello planetario ogni processo di produzione e di consumo delle merci lascia una natura impoverita di alcune sue componenti, non rigenerabili e non rinnovabili, e una natura nella quale la qualità ecologica (ed anche economica) delle risorse naturali è irreversibilmente peggiorata in seguito all’immissione di sostanze estranee.
Il «quarto principio» è di trascurabile importanza (praticamente ) nei cicli «naturali» (pur dove esistono ancora), ma vale, e come!, nei cicli delle attività antropiche, cioè di produzione e consumo di merci economiche, le cui materie estratte dalla natura non sono rigenerabili in tempi brevi e i cui residui non sono assimilabili dai corpi riceventi naturali.
Per affrontare i problemi di scarsità occorre conoscere e rendere minima la massa dei beni estratti dalla natura e reimmessi nella natura. Da qui l’importanza dei bilanci di materia ed energia nei processi delle attività umane, della redazione di una contabilità in unità fisiche dei processi umani.
La maggior parte delle ricerche è stata finora fatta per identificare i «consumi» di energia,
tanto che ormai si parla di un «costo energetico», in unità fisiche, per unità di merce o di servizio, espresso in joule per tonnellata di acciaio o per chilometro percorso da una persona, eccetera.
Un crescente interesse viene rivolto al «costo (fisico) in materie prime» e questo anche per motivi economici. Poiché la maggior parte delle materie prime ha un suo costo monetario, le imprese hanno interesse a ridurre al minimo la massa impiegata. Così nel caso della carta si fa una analisi per confrontare quante tonnellate di albero, o in alternativa, quante tonnellate di carta straccia, sono richieste per ottenere una tonnellata di carta nuova.
Altrettanto importanti sono le analisi della massa di residui o scorie (il «costo ambientale») prodotti in ciascun processo; quanti chili di residui si formano producendo una tonnellata di alluminio partendo dalla bauxite o riciclando alluminio di recupero, eccetera.
Crescente interesse sta assumendo la misura del «costo in acqua» delle merci, definito come la massa di acqua richiesta per ciascun processo. Quante tonnellate di acqua occorrono per produrre una tonnellata di frumento, o di zucchero, o di acciaio, o un’automobile, o per ottenere un chilowattora di elettricità, o per lavare un chilo di tessuto, eccetera.
Al di là dell’utilità pratica, ai fini del risparmio di risorse naturali o anche di costi monetari, di questa analisi, il problema presenta molti interessanti aspetti teorici.
Il lettore avrà notato che ho citato merci e servizi diversissimi. Cominciamo da un prodotto agricolo come il frumento; quanta acqua occorre per ottenerlo? A seconda della scala a cui ci riferiamo possiamo avere risposte diversissime. A rigore per la fotosintesi di una tonnellata di biomassa vegetale secca, per esempio di frumento, occorrono 18 trentesimi di tonnellata, cioè 0,6 tonnellate di acqua.
Ma la tonnellata di frumento, come biomassa secca, è stata ottenuta insieme ad almeno una tonnellata e mezzo di biomassa costituita da steli e radici, per la cui fotosintesi è stata richiesta ugualmente acqua, per cui si deve almeno dire che una tonnellata di frumento ha richiesto almeno una tonnellata e mezzo di acqua tratta in parta dal vapore acqueo atmosferico e in parte dalla umidità del suolo.
Ma anche questa affermazione è limitativa; in realtà la biomassa vegetale ha un suo «contenuto di acqua» che varia a seconda delle parti del vegetale, dal 15 % per i chicchi di frumento a una quantità maggiore nel resto della pianta. Arrotondando a un valore medio di acqua del 50 %, i circa due chili e mezzo di biomassa secca associati alla produzione di una tonnellata di frumento commerciale corrispondono a circa cinque chili di biomassa tale-e-quale con un contenuto medio convenzionale del 50 % di acqua: due chili e mezzo di biomassa secca e due chili e mezzo di acqua «dentro» la biomassa tale-e-quale.
Ma anche questo conto non è convincente; per assicurare il rifornimento di acqua per la fotosintesi e per l’incorporazione dell’acqua nella biomassa tale-e-quale e per tenere conto delle perdite di acqua per evapotraspirazione, per evaporazione
e per percolazione nel suolo, occorrono circa 4.000 t di acqua per ogni ettaro coltivato a frumento che fornisce circa 10 tonnellate di frumento commerciale (100 tonnellate per ettaro è una resa molto elevata). Accettando comunque questi dati si arriva ad un «costo in acqua» del frumento di circa 400 t per t di frumento, 150 volte quello che si potrebbe considerare il «costo minimo» biologico del frumento stesso e che abbiamo prima indicato in 2,5 t per t.
Stabilita l’esistenza di questo divario l’analisi del costo in acqua potrebbe già fornire indicazioni per una politica dell’acqua diretta a ridurre tale costo; per esempio con innovazioni nelle tecniche di irrigazione, con selezioni , con modificazioni delle tecniche di aratura e coltivazione.
Dopo avere parlato del costo in acqua della vita vegetale proviamo a considerare il costo in acqua della vita animale. Consideriamo un essere umano del peso di 60 kg, con un contenuto in acqua medio di 30 kg e con un contenuto di biomassa secca di 30 kg.
Il metabolismo umano richiede circa 3 litri di acqua al giorno che viene ingerita come acqua da bere e come acqua dentro gli alimenti; il fabbisogno corrisponde quindi, per ogni tonnellata di biomassa-umana tale-e-quale, a circa 20 t all’anno di acqua che viene eliminata in parte come vapore acqueo nella respirazione e in parte come escrementi. Il fabbisogno di acqua metabolica per molti animali da allevamento è circa dello stesso ordine di grandezza, 20 tonnellate di acqua all’anno per t di peso vivo.
In realtà gli esseri umani hanno «bisogno» di altra acqua per la preparazione degli alimenti, per lavarsi e per usi igienici, per cui il fabbisogno ulteriore di acqua varia, a seconda dei paesi, delle condizioni di vita, delle abitudini, da 30 a 300 litri al giorno per persona, cioè da 10 a 100 tonnellate l’anno per persona. Per la popolazione italiana di quasi sessanta milioni di persone, probabilmente il «costo in acqua» della vita domestica e urbana si aggira intorno a 6.000 milioni di tonnellate l’anno.
Un valore che può essere confrontato con i «consumi» totali di acqua italiani che sono, all’incirca, ogni anno:
agricoltura…….40.000 milioni di tonnellate
industria……….10.000 milioni di tonnellate
usi domestico…10.000 milioni di tonnellate
Passiamo ora a considerare il costo in acqua di una merce, come una tonnellata di zucchero, ottenuta attraverso un processo di trasformazione di biomassa vegetale. Prima di tutto di zucchero ottenuto da che cosa? dalle barbabietole o dalla canna? Dal punto di vista dell’economia dello zuccherificio il costo in acqua potrebbe essere calcolato dal momento in cui la materia prima, diciamo le barbabietole, entra nello zuccherificio; occorre acqua per pulire le barbabietole, per trasformarle in «fettucce», per estrarre lo zucchero dalle fettucce di barbabietola. Da quando il sugo zuccherino viene concentrato, il processo comincia a produrre acqua distillata che può essere rimessa in ciclo e contribuisce a diminuire il costo in acqua complessivo. Ma una parte dell’acqua va a finire nel melasso, un sottoprodotto, e nelle polpe
umide che vengono cedute dallo zuccherificio per l’alimentazione del bestiame.
Nel complesso si può stimare un «costo in acqua» dello zucchero di circa 3-10 t per t di zucchero secco, quello che va al commercio. Ma questo conto è parziale. La materia prima, circa 6 tonnellate sia di barbabietola, sia di canna, da cui è stata ottenuta una tonnellata di zucchero, sono state coltivate con un loro «costo in acqua», diverso a seconda delle condizioni di coltivazione, ma che difficilmente risulta inferiore a circa 100 tonnellate di acqua per tonnellate di biomassa tale-e-quale. La materia prima aveva quindi «dentro di sé» qualcosa come 600 tonnellate di acqua che vanno addizionate alle 10 tonnellate di costo in acqua del puro e semplice processo di estrazione dello zucchero dalla materia prima.
Il lettore tenga presente che si tratta di un ordine di grandezza; occorrerebbero analisi più dettagliate per avere numeri più vicini alla realtà, ma comunque esse indicano che la produzione annua italiana di un milione di tonnellate di zucchero dalle barbabietole è associata, nell’intero ciclo agricolo e industriale, alla richiesta di circa 600 milioni di tonnellate di acqua.
Sempre per restare all’agricoltura, se si calcola che la biomassa commerciale ottenuta dalle terre irrigate sia di 100 milioni di t all’anno e che la biomassa totale tale-e-quale (cioè col suo contenuto di acqua), sia di 200 milioni di tonnellate all’anno, considerando il valore, indicato poco prima, di un consumo totale di acqua per l’agricoltura di 40.000 milioni di t/anno, si otterrebbe un «costo in acqua» della biomassa agricola totale di circa 200 tonnellate di acqua per tonnellata di biomassa tale-e-quale, un valore che, come ordine di grandezza, non dovrebbe essere molto lontano dalla realtà.
Tenendo conto che l’acqua resa disponibile dalle piogge in Italia, detratte le perdite per evaporazione, è di circa 150.000 milioni di tonnellate l’anno, si vede che il «consumo» di acqua per l’irrigazione rappresenta una frazione rilevante della disponibilità annua totale e che qualsiasi diminuzione di tale consumo aiuterebbe a tenere in maggiore equilibrio il ciclo dell’acqua in Italia.
Un altro dato, ancora relativo al settore agroindustriale, è offerto dalle informazioni che i produttori di carta offrono sui loro cicli produttivi. L’Italia nel 2002 ha prodotto 9,3 milioni di tonnellate di carte e cartoni e, secondo le imprese, tale produzione ha richiesto circa 360 milioni di tonnellate di acqua, che corrisponderebbero, in forma aggregata, a circa 40 tonnellate di acqua per tonnellata di carta e cartone.
In realtà la produzione di carta ha richiesto l’importazione di 3,2 milioni di tonnellate di pasta da carta che aveva «dentro di sé» il contenuto in acqua del legname e dei processi con cui è stata prodotta nei paesi di esportazione. L’Italia ha importato 4,5 milioni di tonnellate di carta (anch’esse con incorporato il «contenuto in acqua» delle materie prime e dei processi seguiti nei passi di esportazione) ed ha esportato quasi tre milioni di carta e cartoni, anch’essi con il contenuto in acqua associato ai processi seguiti in Italia. L’industria
ha inoltre trattato circa 5 milioni di tonnellate di carta da macero raccolti all’interno del paese (si può supporre che la carta da macero avesse un contenuto in acqua più o meno uguale a quello della carta nuova). Al consumo finale sono arrivati 11 milioni di tonnellate di carta, circa sei dei quali sono finiti nelle discariche ed inceneritori, al solito portandosi dietro il contenuto in acqua loro e di tutte le materie prime e i processi con cui sono stati fatti, acqua che finisce nell’aria per evaporazione o nelle discariche nel sottosuolo.
La terza merce che ho citato è l’acciaio; anche qui occorre analizzare l’intero ciclo produttivo e si vedrà che la maggiore richiesta di acqua è nelle fasi di raffreddamento dei punti in cui si genera calore: nella cokeria, nell’altoforno che produce la ghisa, nei convertitori della ghisa in acciaio, e nelle centrali termoelettriche. In genere le acciaierie si trovano sulle rive del mare e l’acqua di raffreddamento è tratta dal mare e rigettata nel mare, più o meno nella stessa quantità, ad una temperatura superiore a quella a cui è stata prelevata; solo una parte va perduta per evaporazione.
In questo caso la valutazione del «costo in acqua» di una tonnellata di acciaio interessa per limitare l’estrazione dell’acqua di raffreddamento dal mare, e per valutare l’inquinamento termico conseguente il ritorno nel mare dell’acqua di raffreddamento, dal momento che la massa del mare potrebbe avere una capacità ricettiva limitata per il calore di rifiuto.
Se si passa poi al costo in acqua di un’automobile bisogna identificare le masse dei vari componenti di una automobile (acciaio, alluminio, magnesio, materie plastiche, gomma, eccetera) e riferire le loro masse a quella di una tonnellata di automobile; il «costo in acqua» di una tonnellata di un’automobile sarebbe così data dalla somma del costo in acqua di ciascuna frazione delle componenti presenti.
La risposta presuppone la disponibilità di un gran numero di dati sui bilanci di massa di un gran numero di cicli produttivi, dati variabili da paese a paese, a seconda delle materie usate in ciascun ciclo produttivo e della tecnologia. Una stima, che va presa con la solita cautela, indica in 150 tonnellate il costo in acqua di un autoveicolo del peso di circa una tonnellata.
Qui di seguito sono riportati alcuni dati, tratti dalla letteratura, sui costi in acqua di alcuni processi o merci. Sono forniti soltanto come ordine di grandezza perché sono stati calcolati con metodi diversi, spesso scarsamente attendibili, in genere senza tenere conto del «contenuto in acqua» delle materie e merci impiegate in ciascun processo. Raccomando quindi grande cautela nella loro lettura e nel loro uso. Le cifre rappresentano il «Costo in acqua» riportato in tonnellate/tonnellata:
acciaio ciclo integrale a ossigeno..10-250
alluminio primario…………………..10-300
rame dal minerale…………………..450
carta e cartoni……………………….30-300
carbonato di sodio…………………..60-75
ammoniaca sintetica………………..140-400
solfato di ammonio………………….800
metanolo………………………………60
nero fumo…………………………….1.100-2.300
butadiene……………………………..20-1000
stirolo………………………………….45-200
gomma sintetica stirolica………….8-90
acido nitrico………………………….60-200
acido solforico……………………….10-60
zucchero………………………………100-150
cuoio e pelli conciate……………….100
birra……………………………………5-8
raffinazione petrolio………………..2-45
granturco……………………………..2.500
soia…………………………………….11
fagioli secchi………………………….13
patate………………………………….1,4
Si tenga presenta che le forti oscillazioni indicate dipendono, fra l’altro, dalla capacità delle imprese di riutilizzare, previa depurazione, una parte delle acque di processo usate in modo da rimetterle in ciclo in quelle parti del processo che richiedono acque meno pure.
Simili considerazioni si possono fare per molti servizi o azioni domestiche; si è già citata la necessità di conoscere il «costo in acqua» del lavaggio di una unità di massa di tessuto, il quale costo varia a seconda del modo di lavaggio, della qualità dell’acqua, della meccanica della lavatrice, del peso dl materiale da lavare.
In qualche caso alcune imprese cominciano a capire che l’indicare che le proprie lavatrici hanno un basso consumo di acqua, oltre che di energia, per unità di lavaggio è un elemento di giudizio apprezzato dall’acquirente. Di recente in Australia è stato proposto di accompagnare le merci con una «etichetta» che indichi quanti kg o tonnellate di acqua sono stati necessari per produrle, un numero ben più significativo delle generiche e vaghe indicazioni che una merce ha ottenuto la «ecolabel» con uno scrutinio dei cui dettagli il consumatore non sa niente.
Ma molto di più si può fare; gli apparecchi sanitari possono essere progettati per fornire lo stesso servizio (il lavaggio delle mani, una doccia, un bagno in vasca, lo scarico del gabinetto, eccetera) con minore consumo di acqua.
Tutte le acque «domestiche» usate (la cui massa è più o meno uguale a quella dell’acqua entrata nei cicli degli usi domestici e urbani e si aggira, come accennato, intorno a 6.000 milioni di tonnellate l’anno) col loro carico inquinante in genere ritornano nei corpi riceventi naturali (fiumi, mare) previa (talvolta) una qualche depurazione; una depurazione più spinta consentirebbe di ottenere acqua che potrebbe trovare impiego in usi di modesta qualità, per esempio per l’irrigazione; se venissero recuperato 3.000 dei seimila milioni di t all’anno delle acque entrate nei, e uscite dai, cicli domestici e urbani si ridurrebbe almeno un poco quella richiesta, prima indicata di 40.000 milioni di t/anno, di acqua assorbita per l’irrigazione in agricoltura.
A che cosa serve l’analisi del «costo fisico» delle merci e dei servizi? Nel caso dell’acqua andiamo incontro ad una scarsità di acqua e quindi la limitazione dei consumi e degli sprechi è, e sarà sempre più, necessaria; tale limitazione potrebbe essere facilitata da adeguate tariffe, ma purtroppo le tariffe sono fissate sulla base di criteri puramente finanziari, in modo da coprire le spese delle aziende acquedottistiche (nel caso dell’acqua domestica e, in parte, di quella industriale, e sono irrisorie nel caso dell’acqua per irrigazione) e sfuggono a qualsiasi funzione etica che le tariffe stesse potrebbero avere.
È perciò tanto più importante una educazione alla limitazione dei consumi di acqua attraverso la conoscenza di quanto si spreca e di quanto si può risparmiare e il ragionamento qui esposto (opportunamente raffinato con dati quantitativi tratti dalla reale esperienza) può essere di qualche aiuto. Occorre peraltro migliorare i metodi di analisi e di
calcolo e questo richiede la collaborazione di chimici, ingegneri, economisti.
La conoscenza del flusso indiretto e diretto di acqua dalla natura ai settori economici e di nuovo alla natura permetterebbe di identificare anche altri interessanti indicatori, come il contenuto in acqua (vogliamo dire il «valore in acqua»?) delle merci importate ed esportate e il contenuto in acqua per addetto nei vari processi produttivi agricoli e industriali.
Infine va notato che se i produttori di merci fossero indotti a dichiarare quanta acqua hanno usato per produrre le loro merci sarebbero maggiormente spinti a prendere consapevolezza delle irrazionalità e degli sprechi presenti nei loro cicli produttivi, anche considerando che il problema del consumo di acqua rappresenterà sempre più in futuro un fattore determinante, addirittura un fattore limitante, in senso biologico, per la concorrenza a livello internazionale. Migliori conoscenze del «costo in acqua» delle merci e dei servizi gioverebbe, quindi, sia agli imprenditori, sia ai consumatori finali, sia ai governi che volessero veramente fare una politica di uso razionale delle risorse naturali.