L’avvilente «lasciar fare le cose»

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In nome dell’«avvenga ciò che avviene», («obiettivo» coerente ed atteso dall’impegno verso il «fare ciò che si può fare» finalizzato solo alla «massimizzazione» dei profitti) la globalizzazione, attuata in nome del mercato dei consumi ha, di fatto, disattivato i momenti relazionali umani estraniando gli eventi e i loro significati dalle relazioni con il nostro «vissuto», neutralizzando ogni consapevole dissenso, verso scelte rese indistinte, e sottraendo, alle nostre volontà e responsabilità, la valutazione del «senso delle cose».
In uno scenario di «fatti», proposti e fatti immaginare come neutrali, avvengono, così, fenomeni non percepiti criticamente e accettati solo col «senso comune» dell’avvilente «lasciar fare le cose», che segna il degradare di un divenire nel quale la creatività umana, sostanza e segno della diversità ed unicità di ciascun individuo umano, è sempre più assente.
Qualcuno può, subdolamente, tentare di giustificare queste perverse situazioni, di contraddizioni e arbitrarietà, come effetto della «complessità». Ma si tratterebbe di una complessità sui generis, che non promuove la valorizzazione del tessuto sociale umano e che opera con stili di vita non virtuosi: più propriamente dovremmo, allora, parlare di una «complicazione» dispersiva e infertile, in quanto l’aumento di entropia, associata alla produzione e consumo di beni e servizi «complicati», comporta non solo ulteriore e ingiustificato spreco di risorse, ma anche l’impercorribilità di quei processi sinergici che generano risparmi e migliori qualità dei processi vitali.