Navigando nelle disorientanti rotte delle ipotesi, delle intuizioni e delle convinzioni empiriche o delle interpretazioni «scientifiche» fornite dai macromodelli economici, cui fanno regolarmente riferimento i vari commentatori economici, alla fine mi è sembrato di aver raccolto di tutto e il suo contrario e anche qualcosa di più.
Emblematiche, in questa direzione, mi sono sembrate le contraddizioni che si sono manifestate nell’assegnazione dei Nobel per l’economia, Nobel che sembrano revival, in situazioni diverse, delle solite teorie. In economia non essendo praticabile quella «confutazione» specifica delle scienze naturali, si produce una indistinta, pur se legittima, sopravvivenza per integrazione, nel panorama delle proposte già formulate, di qualsiasi teoria, anche di quelle di epoche ormai passate: tutte rimangono sempre in prima fila, pronte a vivere una loro ricorrente giovinezza e a generare, così, una buona dose di confusione, su ciò che può essere considerato vero o falso.
Può essere interessante, in questa prospettiva, cercare un senso (che vada oltre singoli dettagli) in quelle contrapposizioni che caratterizzano i Nobel per l’economia assegnati, per esempio, negli anni 2006 e 2008. Nel 2008 a Paul Krugman (economista d’indirizzo keyneisiano e ipercritico verso la new economy) per aver previsto, con illuminato anticipo, la crisi finanziaria, causata da un mercato senza regole, che ha colpito e continua a colpire gli Stati Uniti e le economie mondiali più avanzate. Ma il premio Nobel gli è stato conferito solo a crisi già avvenuta: le sue corrette «profezie», purtroppo, non sono state raccolte nei tempi dovuti.
Krugman afferma, anche in connessione con l’attuale crisi mondiale, la necessità di un profondo cambiamento dell’economia globale del libero mercato: si può forse sperare che un prossimo premio Nobel gli venga attribuito per aver permesso di evitare ulteriori crisi e non solo per averle previste!
Nel 2006, invece, lo stesso Nobel era stato assegnato, per ragioni sostanzialmente opposte a quelle di Krugman, a Edmund Phelps, difensore dell’ortodossia monetarista e ideologicamente schierato a sostegno della innocenzadel «libero» mercato (quello che ora, «libero» da regole ha prodotto l’attuale crisi economico-finanziaria) ritenuto «neutrale» per definizione. Peccato che il premio Nobel gli sia stato conferito in previsione del successo delle sue «illuminate» intuizioni, un successo, forse, troppo «ottimisticamente» anticipato rispetto agli eventi e, di fatto oggi, mancato e anzi trasformato in una drammatica crisi non prevista. Certo è che due Nobel dati a tanta contemporanea differenza di modi di vedere l’economia, lasciano qualche dubbio sulla credibilità delle loro argomentazioni e sulla loro affidabile spendibilità, nella complessità globale delle relazioni umane.
Senza voler essere provocatori, forse c’è da chiedere di sospendere o, meglio, di sostituire i Nobel per l’economia almeno con altri Nobel assegnati secondo criteri meno estemporanei. Per esempio, si potrebbe scegliere di assegnarli a chi è riuscito a trovare il modo per favorire lo sviluppo economico concreto in regioni o stati pacificati e coinvolti in relazioni sinergiche per la realizzazione di progetti di partecipazione e cooperazione al proprio sviluppo (un tale riconoscimento sarebbe potuto andare al premio Nobel M. Yunus, che nel 2006 aveva, invece, ricevuto
il Nobel per la pace).
La scienza economica, diversamente da quelle naturali, vive dunque non di sottrazione di teorie falsificate ma d’integrazione continua di teorie variamente reinterpretate e di scenari persistenti d’idee e di fatti già noti.
Nel teatro della nostra vita, ormai campeggiato dal mercato globale, c’è un consistente rischio di finire nel ruolo di comparse e spettatori, di volta in volta, al seguito delle mode o schierati nelle diverse tifoserie di parte.
Invece di «parteggiare», forse, sarebbe meglio, per noi tutti, scendere in campo per operare, autonomamente e responsabilmente, oltre quelle infide divisioni che distruggono le «relazioni» umane propositive e costruttive di una democrazia intenzionalmente vissuta, che alienano il piacere dei diritti e dei doveri, che si oppongono all’articolazione di volontà e azioni in favore di libertà e interessi condivisi, che non permettono, alle qualità creative umane, di non finire in una «cosa» tecnologicamente avanzata e che distolgono dalla ricerca di quel «senso» delle cose che vive creativamente e in intelligente sintonia con le finalità e i segni rilevabili dai processi e dagli equilibri presenti nei fenomeni naturali.