Le ragioni del «no» a questo nucleare

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Il prezzo del combustibile

Le analisi comparative puntano tutte sul basso prezzo dell’uranio rispetto al petrolio a parità di energia elettrica prodotta. Ma questa è una situazione che solo qualche sciocco potrebbe ritenere immutabile anche solo di qui a qualche anno. Il problema è che il costo dei combustibili (escluso quello reso disponibile da dismissioni militari e gestito da accordi di politica internazionale) è determinato concretamente, al di là di ogni impresentabile ipocrisia, da un cartello di produttori che tende, e riesce bene in questa direzione, a diventare gestore universale di tutti i tipi di combustibili, nucleare compreso.
Il costo dei combustibili è, dunque, sostanzialmente definito più che da un fittizio mercato «libero», da complesse relazioni militari, economico-finanziarie e di politica internazionale: diventa, così, un fattore poco flessibile sul mercato delle materie prime e viene, così, sottratto alle libere negoziazioni delle convenienze da parte dei paesi che, come l’Italia, sono solo consumatori.
Tutti sanno quanto le materie prime (petrolio compreso), oggi in particolare, siano sottoposte alle leggi speculative del mercato e come la differenza dei prezzi (e non il prezzo) fra i diversi tipi di combustibili dipenda dal peso delle diverse richieste (ricordiamo, qui, solo l’emblematico andamento del prezzo del gasolio che, in questi ultimi giorni, ha raggiunto il prezzo della benzina e che in pochi anni si è quasi raddoppiato solo perché è aumentata la domanda).
Così sarà anche per il combustibile nucleare (segnali forti in tal senso sono, oggi, già evidenti), che è destinato ad essere venduto allo stesso identico prezzo, di un qualsiasi altro combustibile, a parità di energia elettrica prodotta, pur se con rischi che, per il nucleare, sono imparagonabili con quelli di tutti gli altri impianti tradizionali di produzione elettrica. Ma forse c’è, ancora di peggio, da raccontare perché vi sono anche insopportabili «costi occulti» da pagare, come quelli legati alle strategie geopolitiche dei paesi produttori o distributori e ai ricatti imprevedibili delle impennate della speculazione.
Tutti costi, questi, che finiscono col pesare, con i loro spesso insopportabili condizionamenti e sottomissioni, sul «senso del vivere» umano delle popolazioni coinvolte nelle avventure del nucleare. In conclusione dobbiamo prendere atto che il costo dell’energia, elettrica in particolare, non lo fa la tecnologia scelta, ma chi vende risorse! Il monopolio dei produttori delle materie prime dell’energia porta fatalmente ad equiparare i prezzi di tutti i combustibili in funzione dell’energia che sono capaci di sviluppare: il minor costo dell’uranio e la diversificazione dei fornitori di combustibili sono fattori di nessun peso nelle relazioni commerciali fra produttori e consumatori non produttori. Una situazione, questa, specifica del nostro paese, che dovrebbe solo evitare inutili e pericolose avventure nucleari e che dovrebbe, invece, impegnarsi nella ottimizzazione delle tecnologie che sfruttano le risorse rinnovabili disponibili, in particolare: sole, vento e forse le correnti marine. Sarà poco, ma è ciò di cui disponiamo gratuitamente, insieme con la grande risorsa del risparmio energetico.

L’autonomia energetica della scelta nucleare

Su questa linea di problemi, per il nucleare, anche da parte dei responsabili politici delle scelte, si arriva a parlare, falsamente, di una nostra autonomia dalle importazioni che se è vera per alcuni paesi europei, non lo è per l’Italia. Noi, infatti, siamo importatori anche dei combustibili nucleari come della gran parte di tutti gli altri combustibili. Ma questa constatazione sembra non essere percepita. Sembra che i responsabili delle scelte non sappiano, o si rifiutino di sapere, che il minerale uranifero non è estraibile a prezzi convenienti sul nostro territorio nazionale e che, soprattutto, non disponiamo della complessa e insostituibile filiera per la produzione dell’uranio arricchito che è l?unico combustibile per i reattori nucleari di terza generazione.

Le conseguenze perverse di una scelta priva di flessibilità produttiva

Nelle analisi ambientali (studio degli impatti) si devono regolarmente prendere in esame quei «meccanismi anomali» che le diverse proposte alternative, di modifica di un territorio, possono eventualmente attivare andando al di là, se non proprio contro, le intenzioni dei progettisti e creando, così, altri e nuovi problemi. Per la scelta nucleare, l’incidenza di questo «meccanismo anomalo» ha una notevole rilevanza.
La rigidità della produzione elettrica da impianto nucleare, infatti, comporta una produzione continua di energia che non può essere modulata secondo le richieste. Dunque con la scelta nucleare sarà, anche, necessario assicurare tassativamente il consumo di energia elettrica che nominalmente viene prodotta dalla rete del nucleare elettrico. Un problema che si risolve (per non correre il rischio di dover fermare una o più centrali, con tutto il relativo complesso e dispendioso problema di doverle, poi, riportare a regime) con l’incentivazione dei consumi elettrici nei momenti di bassa richiesta: ore serali e notturne. Detto in altri termini il risparmio «presunto» del nucleare, anche se fosse reale, rischierebbe così di essere vanificato.
La conclusione è uno spreco incombente di energia elettrica nelle ore serali e notturne (per illuminazione urbana ed extra urbana e per il condizionamento estate-inverno degli ambienti) ed un conseguente inquinamento termico ambientale ingiustificato (dovuto a quel 60% di energia termica che accompagna sempre il rendimento del 40% di tutte le centrali termoelettriche a vapore, quelle nucleari comprese). Questo è ciò che avviene in tutti i paesi che hanno centrali nucleari fino alla terza generazione. Possiamo dunque dire, con motivati argomenti, che tutto questo è almeno una dispendiosa «ginnastica» senza senso che sconfessa, quel quadro, già molto opaco, dei presunti vantaggi del nucleare.

La sostenibilità del contributo, quantitativamente significativo, del nucleare ai consumi energetici nazionali

Il conflitto, fra l’industria energetica (che trova la sua missione e il suo interesse nella produzione e nei profitti derivanti dalla vendita di energia) e una politica di razionalizzazione dei consumi e di risparmio energetico, presenta il suo punto nodale più critico proprio nella definizione dei programmi di sviluppo dell’offerta di energia elettrica. Chi produce non può coltivare il «perverso proposito» di frenare la produzione, mentre chi consuma non ha interesse a utilizzare e pagare il servizio in quantità superiore alle sue necessità o a rinunciare alle opportunità di risparmio.

Il ruolo della politica è dunque essenziale e non può limitarsi a soddisfare interessi lobbistici contro gli interessi generali. Ma la scelta nucleare costringendo ad una produzione non flessibile di energia elettrica impone un’alterazione dell’equilibrio domanda/offerta. Una situazione che finisce col favorire un uso irrazionale e insostenibile delle risorse.
Non è un caso che il problema della sostenibilità sia tenuto in sordina, quasi come se si volesse rimuoverlo. La sostenibilità è, invece, un problema su cui non solo è necessario riflettere (e, invece, non capita di vederlo neanche richiamato, da quotidiani e riviste, nelle pur ampie paginate sul nucleare, oggi in gran parte ideologicamente schierate per il nucleare o ambiguamente neutrali) ma è anche un problema urgente a cui dare risposte per evitare i danni irreparabili di un intervento arrivato troppo in ritardo.
In un sistema democratico non si possono imporre scelte preordinate, ma ancor più non si può pensare di gestire settorialmente i problemi di tutti, mettendo così in pericoloso isolamento coatto quote significative di intere comunità locali e nazionali private del diritto di partecipare attivamente alle scelte. Una situazione molto critica, questa, se si tiene presente che la scelta nucleare non è una gara olimpica, nella quale «l’importante è partecipare» e che, quindi, un contributo significativo del nucleare al fabbisogno energetico italiano può essere dato solo con l’installazione di alcune decine di centrali.
Una scelta dalla quale, ammesso che sia sostenibile, non è neanche pensabile di poter tenere fuori le consapevolezze e le responsabilità di scelta e controllo dei cittadini. Ma il progetto (anche nella sua irrealizzabilità per le caratteristiche dei nostri territori e per limiti imposti dalle ricadute sociali e ambientali) rischia di rimanere sul «tavolo di comando» pronto solo a diventare esecutivo senza confronto decisionale democratico.
Un tale numero di centrali nucleari, peraltro, è anche economicamente insostenibile se non presenta una precisa destinazione e valorizzazione produttiva di nuove fonti di energia. Non sembra, infatti, che siano previste specifiche condizioni, di utilizzazione dell’energia prodotta capaci di generare quei maggiori profitti, e quindi quelle risorse finanziarie, necessarie per ripagare gli enormi costi diretti ed indiretti di una scelta nucleare. La nuova centrale in costruzione in Svezia, per esempio, ha un suo preciso gruppo di industrie di riferimento che, con la sua totale partecipazione finanziaria alla costruzione e alla gestione dell’impianto, si è assunto l’impegno di impiegare tutta l’energia prodotta, per lo sviluppo di attività produttive.

Problema scorie

Il problema scorie non cambia molto nel mondo. Anche in Usa, con tutti gli ampi spazi di cui dispone questo paese, il problema si presenta ugualmente irrisolto e vi sono, anzi, preoccupanti propositi coercitivi certamente non graditi dalla popolazione, per mettere a tacere la questione scorie, di fatto lasciando, così, il problema, definitivamente insoluto. Il problema delle scorie nucleari è un ben noto problema che non potendo essere confinato nelle aree off-limits delle centrali nucleari, emerge nel pieno delle sue irrealizzabili pretese di soluzione.
Ricordiamo qui che (escludendo il rilascio occasionale di materiale radioattivo per eventuali piccoli o grandi incidenti) per i rilasci di routine (scorie solide e liquide, gas e aerosol) gli impatti riguardano:

– l’irrisolvibile inertizzazione delle scorie solide e liquide e il loro sconfinamento sempre a rischio;
– per i gas e gli aerosol radioattivi (xeno, cripton, iodio…) gli effetti della loro immissione in aria ambiente (dalle ciminiere, dopo i trattamenti) sulla salute della popolazione, sono affidati a quelle valutazioni epidemiologiche che richiamano alla mente i 50 anni di inquinamento da amianto mortalmente passati nel limbo delle malattie professionali non riconosciute;
– gli effetti determinati dallo stressante e continuo malessere per un pericolo sempre incombente;
– il degrado per lunghi tempi del territorio, agricolo o abitato, e delle falde acquifere in caso di incidente, di atto di guerra o terroristico.

A fronte di questi ineludibili problemi la comunità tecnologica e parte di quella scientifica non trova di meglio che sorvolare sul problema proponendo inverosimili e non databili promesse di soluzione. In realtà non sappiamo proprio nulla su come il problema delle scorie dei reattori di terza generazione potrà essere risolto, di una cosa, però, possiamo essere sicuri: il conto delle spese da pagare sarà salatissimo, e si farà finta che il problema sia stato risolto.

La convenienza del nucleare

Sulla convenienza del nucleare hanno parlato in molti: ma i «se», peraltro detti sommessamente, si sprecano e di alcuni ne abbiamo riferito nella parte iniziale di questo articolo. Negli Usa molto concretamente, per assicurare profitti, lo Stato ha dato elevati incentivi e soprattutto ha posto un limite, per legge, ai risarcimenti, permettendo così un rischio di impresa sopportabile, ma a danno dei cittadini.
In Usa il ciclo dell’uranio è completo. La disponibilità in questo Paese di combustibile, autonomamente prodotto, offre qualche vantaggio in più, ma non si può, nonostante tutto, parlare di efficienza economica della relativa produzione elettrica.
In India, invece, c’è grande disponibilità di torio (combustibile del nucleare di quarta generazione) e la ricerca sta portando ad un sistema (per ora ancora sperimentale) con una maggiore efficienza (60 volte superiore) e con scorie in bassa quantità e minore impatto per la sicurezza.

In Italia niente di tutto questo e quindi allo stato attuale, se il governo decidesse di voler lasciare la sua «impronta nucleare» con «cose fatte», certamente non punterà sulla ricerca, ma sull’acquisto di brevetti e apparecchiature da società estere (che saranno solo montate da società italiane), acquisterà combustibile a prezzi decisi totalmente dal venditore, tratterà con compiacenti altri paesi per il deposito temporaneo delle sue scorie, almeno per ritardare il problema, rimandando ad altri, le responsabilità inalienabili di averle prodotte. Alla fine i costi risulteranno notevoli e quindi lo Stato assumerà in proprio la costruzione delle centrali (fingendo un project financing, a carico dei «privati»… ma sostanzialmente a carico delle «imprese di Stato», «privatizzate», ancora con disponibilità di finanziamenti statali.
Così anche la gestione degli impianti sarà probabilmente affidata a terzi, ma, per problemi di sicurezza e di relazioni internazionali, l’approvvigionamento del combustibile sarà esternalizzato e sarà a carico dello Stato, cioè non graverà sulle spese di gestione dell’impianto, falsandone i costi. Ancora, si deciderà una nuova autorità, per attribuire ad un ente esterno il controllo, tirando fuori, così, lo Stato, come «decisore», dalle responsabilità dirette delle scelte effettuate, da eventuali contenziosi e da non convenienti perdite di immagine. Alla fine la nostra comunità pagherà tutti i costi, mentre il gestore degli impianti potrà spudoratamente rendicontare il basso costo dell’energia nucleare e fare anche profitti.
Il fatto è che il nucleare, di per sé solo una complicata fonte di energia termica, richiede non solo fondate teorie scientifiche, studi di fattibilità, adeguate tecnologie (tutte cose di supporto alle scelte umane e invece spesso trasformate in «dimostrazioni incontestabili» delle «meraviglie del nucleare», da invocare per l’«imbonimento» degli sprovveduti), ma richiede anche discernimento, intelligenza e assennatezza nelle valutazioni e decisioni che rispondano a obiettivi e finalità di «progresso» umano e non solo di «sviluppo» deciso dall’economia. C’è il rischio, altrimenti di attivare consensi (quanto meno ingenui e carpiti con l?inganno di un’informazione incompleta) verso scelte poco o niente argomentate nel merito delle visioni più profonde del vivere umano. C’è il rischio di far assumere indirettamente, ad intere comunità, le responsabilità di quelle ben note e rovinose conseguenze che, come la storia insegna, non potranno mai trovare giustificazioni e assoluzioni in sentite passioni e in entusiasmi ideologici, qualunque siano le nobili origini e le buone ragioni che possano vantare.