Il suo successo senza eguali può essere sintetizzato in poche cifre: dai soli 100 individui del «minimo storico», la popolazione italiana ha ormai raggiunto almeno 700 esemplari
Considerato un nemico da distruggere, e una piaga da eliminare, appena una trentina di anni fa il lupo in Italia non sembrava avere alcun futuro. Né cultura, né scienza, né economia o sociologia consentivano di aprire il pur minimo spiraglio di luce per sperare di offrirgli, nel buio tunnel in cui s’era rifugiato (in realtà un’oscura galleria di credenze e superstizioni, diffamazioni e calunnie riversategli addosso per secoli e secoli dall’uomo stesso) la benché minima speranza di salvezza.
L’impresa di sottrarlo al destino di scomparire per sempre si presentava, dunque, come la classica «missione impossibile»: e come tale venne affrontata da un pugno di persone decise con pochi mezzi e con ancor minore assistenza da parte delle autorità ufficiali.
L’inizio della storia
Al principio degli anni Settanta, i lupi in Italia non contavano che un centinaio di individui: sparsi e affamati, perseguitati con tagliole e bocconi avvelenati, accerchiati con battute e persino esposti in piazza, una volta uccisi, al pubblico ludibrio. Ma, come insegna la storia, può bastare un semplice stormire di foglie a far presagire il più inatteso cambiamento del vento: e una volta avviata, la campagna in difesa del lupo si rafforzò sempre più, fino a travolgere un ostacolo dopo l’altro. E il suo successo senza eguali può essere sintetizzato nelle cifre: dai soli 100 individui del minimo storico, la popolazione italiana ha oggi raggiunto almeno 700 esemplari. E che possa continuare a crescere, occupando ogni residua nicchia disponibile, sembra fuor di dubbio: perché il lupo sa bene dove andare, e come adattarsi a nuove situazioni… Fino a che, si spera, potrà stabilizzarsi in Italia con una popolazione adeguata (d’un migliaio di soggetti, divisi in branchi di 6-10 individui, o forse più).
La storia della rinascita del Lupo appenninico è una storia capace di restituire fiducia e speranza nella vita, e nella convivenza pacifica tra esseri diversi. Una metafora di ciò di cui, probabilmente, l’umanità contemporanea avrebbe più bisogno. Una vicenda che, come altre di cui si parla troppo poco (alla cronaca servono piuttosto fatti negativi o crudeli, occorre specialmente poter «sbattere il mostro in prima pagina»), sconfigge ogni previsione pessimistica ed ogni atteggiamento rinunciatario: Un successo che non si è certo basato sui dogmatismi della scienza accademica più retriva, ma li ha contestati ed è balzato oltre, senza esitazione. E i fatti hanno dato ragione agli «eretici» difensori del lupo, lasciando tutti a bocca aperta. Ma procediamo con ordine, fornendo qualche esempio dei più significativi.
Una paura antica
Nel secolo scorso, zoologi di fama e personalità illustri gareggiavano nell’esecrazione del lupo, definito «pauroso ricordo storico» e sollecitando «che in ogni tempo, in ogni luogo e da qualunque persona sia permessa l’uccisione del lupo, e che sia sempre concesso un adeguato premio in danaro, che stimoli ognuno ad ucciderlo con tutti i mezzi a disposizione». Ma con il declino di una pastorizia trabocchevole, che aveva invaso ogni angolo dell’Appennino, le cose sono cambiate. E pastori più avvertiti hanno dimostrato che, soprattutto con un impiego più adeguato dei cani da pastore abruzzese, è possibile difendere il bestiame domestico. Se si lasciano sopravvivere nei boschi anche un po’ di cervi e caprioli, il lupo si potrà dedicare di nuovo alle proprie prede naturali: le quali, per un singolare paradosso ecologico, hanno davvero bisogno di lui: perché ne contiene il numero, eliminando gli esemplari troppo vecchi e malati… E soprattutto inseguendoli, mantenendoli così in esercizio ed in ottima forma, costringendoli a sfruttare anche i pascoli più remoti e meno comodi, ma evitando che, insistendo a pascolare sempre negli stessi luoghi, finiscano col trasmettersi malattie, poi destinate forse a diventare epidemie. Un’altra idea, radicata nei cosiddetti specialisti, era quella secondo cui il lupo non avrebbe potuto mai predare il cinghiale, animale a più riprese «lanciato» dai cacciatori con metodi assai discutibili, e poi diffusosi al punto da causare seri problemi alla già stremata agricoltura. Ebbene, la verità è ben diversa. Il lupo preda regolarmente il cinghiale, soprattutto nella neve fresca, anche se evita ovviamente i maschi più agguerriti e le madri più furibonde: il suo obiettivo normale è dunque il cinghialetto subadulto, già lontano dalla tribù materna e non ancora tanto forte ed esperto; quello insomma che i francesi chiamano, per il colorito fulvo, «la bête rousse (rouge)».
Quando l’espansione silenziosa del lupo verso Nord, preceduta da circospetti individui esploratori e pionieri, incominciò a manifestarsi concretamente a fine secolo, con segnalazioni in Emilia, in Liguria, e poi addirittura in Francia e in Svizzera, scoppiò un vero putiferio. Non era possibile, si gridava, che quei lupi fossero arrivati da soli, qualcuno doveva averli portati, o magari liberati nottetempo. Addirittura lanciandoli dall’aereo e dall’elicottero, con il paracadute. Erano dunque lupi canadesi o siberiani calati dal cielo, e quindi da distruggere senza pietà…
Ignoranza scientifica
Ancora una volta, la verità non stava nel mezzo, ma semplicemente nel rifiuto della forza della natura e nell’ansia e nella paura. Unite alla brama di calunniare con i lupi quanti davvero li difendevano, e volevano salvarli. Un modo, insomma, di ribadire l’identità popolare con la consueta «leggenda metropolitana» priva di fondamento, ma utile alleata per respingere qualcosa che si riteneva «calato dall’alto». Infine l’ultima, e più amena sconfitta del dogmatismo accademico imperante, quella relativa all’identità del lupo italiano. Per decenni chi lo conosceva davvero ha tentato inutilmente di far capire a tutti quanto diverso fosse dagli altri lupi del resto d’Europa, perché la sua vita isolata lungo le montagne della penisola aveva formato una popolazione unica, descritta nel 1926 dal medico molisano Giuseppe Altobello come Canis lupus italicus, ovvero il Lupo appenninico.
Bazzecole, a detta dei sapientoni di turno, che se mostravano ottime capacità nella lotta per il potere dentro e fuori le Università, non capivano certo un’acca di «tassonomia», vale a dire dei metodi di classificazione degli animali. E a nulla valeva spiegare che, se si desiderava affermare apoditticamente che il nostro lupo fosse identico agli altri, occorreva avere la pazienza di dimostrarlo con argomenti d’un certo peso, perché nella storia della zoologia esisteva pur sempre la sottospecie italica descritta da Altobello.
A quel punto si disperdevano in gratuite elucubrazioni su un lupo italiano che era stato troppo mescolato a sangue canino, e quindi valeva ben poco. Ma questa volta, la scienza più seria ha finalmente rinnegato la parabiologia. Il Lupo appenninico esiste, ed è quanto mai puro (anche se in passato non è mancato qualche caso di ibridazione con il cane, ciò che è del resto perfettamente normale).
È una valida sottospecie, come accurate indagini genetiche hanno confermato, e ciò gioverà senza dubbio allo sforzo di conservazione a livello europeo. Del resto il lupo delle nostre montagne, Mezzogiorno incluso, meritava di essere salvato, e in gran parte vi è riuscito da solo. Non grazie a costosissimi studi, ma al messaggio di San Francesco. E la sua riscossa costituisce ora un bell’esempio da imitare, per tutti i lupi della nuova, più vasta Europa che oggi si sta formando. Starà a noi dimostrare che, liberati ormai da false angosce e paure, sapremo convivere con lui, nostro antico fratello che avrebbe tante cose da insegnarci. Starà a noi dimostrare che, libero ormai da false angosce e paure, sapremo convivere con lui, nostro antico fratello che avrebbe tante cose da insegnarci.