Quando la vita finisce. La sostenibilità morale dell’eutanasia

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di James Rachels, edizione Sonda

Pagine: 262 | Costo ?: 18.00

Scritto dal filosofo americano James Rachels «Quando la vita finisce» è un testo che Armando Massarenti che ne firma la presentazione, definisce «una pietra miliare della letteratura in difesa dell’eutanasia».
È un saggio ricco di casi che interpellano direttamente la coscienza di ciascun lettore.
Siamo posti dinanzi a una serie di questioni morali e nascono dubbi e domande, la prima, la più radicale è cos’è vita? Prima di parlare del divieto di uccidere bisogna domandarci cosa intendiamo con la parola «vita». Rachels offre un’argomentazione che chiarisce il suo punto di vista, lasciamolo parlare: «esiste una differenza tra avere una vita e semplicemente essere vivi… essere vivi, in senso biologico, è relativamente poco importante. La nostra vita, al contrario, è immensamente importante: è la somma delle nostre aspirazioni, decisioni, attività, progetti e relazioni umane».
Secondo l’autore «la distinzione tra essere vivi e avere una vita non è stata presa nella debita considerazione né nella tradizione orientale né in quella occidentale». Egli offre anche una reinterpretazione del concetto di sacralità della vita che, secondo lui, dovrebbe essere inteso come «protezione delle vite in senso biografico, e non puramente della vita in senso biologico».
Ci viene proposto, tra i tanti, il caso drammatico di un malato terminale(pag. 52) Matthew Donnelly.
Mentre l’autore racconta la vicenda di Donnelly si pone e ci pone delle domande.
Questa storia è emblematica e riporta alla mente il film «Million dollar baby» di Clint Eastwood.
Cosa faremmo noi di fronte ad una persona cara che ci chiede di metter fine alle sue atroci sofferenze?
Secondo la morale tradizionale cristiana nessuno può «impersonare Dio» e decidere di mettere la parola fine all’esistenza di un uomo. Però come acutamente osservava nel 1700 David Hume «Se disporre della vita umana fosse una prerogativa peculiare dell’Onnipotente, al punto che per gli uomini disporre della propria vita fosse un’usurpazione dei suoi diritti, sarebbe ugualmente criminoso salvare o preservare la vita». Alle parole del filosofo si aggiungono quelle dell’autore: «Se togliere la vita è proibito perché solo Dio ha il diritto di determinare quanto una persona vivrà, allora anche salvare la vita dovrebbe essere proibito per la stessa ragione. Dovremmo quindi abolire la pratica della medicina».
La filosofia morale deve, secondo Rachels, riflettere su questioni etiche pratiche, aiutare a «pensare in modo concreto». In questo libro infatti ci sono argomentazioni, confutazioni che conducono a ragionare su un tema complesso e delicato come quello dell’eutanasia. C’è differenza tra eutanasia attiva e passiva? Esistono dei casi in cui la proibizione di uccidere può essere sospesa? Come dev’essere giudicato chi uccide per pietà?
Sono domande che forse tutti si sono posti dinanzi ad un caso che ci ha toccato profondamente, la vicenda di Piergiorgio Welby, inchiodato sul suo letto dalla distrofia muscolare progressiva.
Di fronte a queste storie la coscienza rimette in discussione i principi morali in cui crede.
La collettività s’interroga: possiamo togliere la vita intenzionalmente? Cosa s’intende per accanimento terapeutico? È moralmente condannabile chi «stacca la spina»? Chi ha il diritto di condannare… a vita qualcuno che esercitando il libero arbitrio chiede nel pieno delle sue facoltà d’interrompere l’esperienza terrena? Cosa è giusto? Cosa c’è di naturale in una vita mantenuta dalle protesi tecnologiche?
Nella nostra società non esiste una cultura della morte, così quando questa irrompe nelle nostre vite ha un impatto disorientante. Il libro di James Rachels esamina le opinioni tradizionali, le analizza e ne mette in luce le crepe logiche. È un libro che ci riguarda tutti.
Abbiamo tutti la tentazione di chiudere gli occhi di fronte al «corpo in pena» ma non può farlo una società che voglia chiamarsi civile, non possiamo continuare a girare lo sguardo altrove, lo stesso Welby, nel suo libro «Lasciatemi morire» chiama la morte «la grande assente» e rivela un suo desiderio: «Vorrei che i sogni perduti o abbandonati al mattino vicino al dentifricio, o quelli traditi per vigliaccheria o per calcolo cinico o per timore degli altri, ritrovassero la strada e rimanessero al mio fianco per farmi compagnia. E vorrei morire all’alba insieme a loro».

(Margherita De Napoli)