Intanto, nella routine quotidiana e concreta dei fatti, come se tutto fosse guidato solo da un destino, con l’affermarsi della globalizzazione dell’economia di mercato, i governi nazionali sembrano aver rinunciato ad ogni diretta responsabilità nella gestione razionale e virtuosa delle risorse. Pertanto, pur essendo direttamente coinvolti in una drammatica crisi, non si sono sentiti direttamente impegnati nel cercare rimedi alle distorsioni speculative degli incontrollati strumenti finanziari. Non c’è dunque da meravigliarsi se poi oggi, in attesa delle decisioni a più alto livello, non possono fare niente di meglio che prendere atto di una mancanza di «fiducia dei mercati» e invocarne una rapida ripresa almeno per esorcizzare la prostrazione di una «felicità» consumistica mai appagata e ora anche negata.
Stiamo, di fatto, vivendo i mali di una sproporzione oltraggiosa fra i forti interessi globalizzati delle attività finanziarie e le legittime attese di comunità locali, ormai sottomesse e in condizioni di totale debolezza contrattuale sui temi fondamentali del loro esistere. Da questo stato delle cose ne deriva non solo un’inaccettabile umiliazione della dignità umana, ma anche un’avvilente impotenza delle istituzioni locali che un tempo gestivano, almeno in parte, i processi economici e, pur se a grandi linee, ne dovevano rispondere, nel bene o nel male, alle rispettive comunità.
Oggi, invece, la sprovvedutezza (socialmente diffusa e resa strutturale dalle ideologie consumistiche e dai relativi strumenti di persuasione e imbonimento che impongono consumi e ritmi di vita «predeterminati» da un sistema di comando verticistico e globalizzato) conduce le comunità umane, trasformate in masse indistinte, sulle strade perverse e distruttive dell’«ottimismo dei consumi». Una «filosofia» economica, questa dell’«ottimismo», che è senza controllo, e che condanna a una crescita demenziale dei consumi paragonabile a quella delle patologie tumorali: una metastasi che diffonde «sogni», di crescita della ricchezza, basati sul «debito» e sulla «distruzione» di risorse, quasi come se queste fossero variabili indipendenti dei fenomeni economici.
Ma se le paralizzanti distonie sistemiche e le drammatiche delusioni umane, sono certamente un dato di fatto in una realtà che sfugge al nostro controllo, dobbiamo consapevolmente prendere atto che è anche intollerabilmente assente, nei modi di pensare e nei comportamenti umani più diffusi, individuali e collettivi, una nostra capacità di fare analisi e scelte operative, virtuose e sinergiche, che incidano intenzionalmente sul divenire dei fenomeni vitali.
Non sembra, infatti, che si possa rilevare una diffusa e responsabile percezione personale e collettiva di tutto un mondo che, per trarre vantaggi e privilegi individuali o di particolari gruppi, «brucia» risorse più di quante sono quelle rinnovabili a disposizione e che non si preoccupa, neanche, di investire le risorse esauribili consumate in opere e servizi che, almeno, non si oppongano a progetti per un «futuro vivibile» e per condizioni e opportunità spendibili per un «progresso umano».
Eppure, in un mondo dove ogni evento e ogni fenomeno offrono un contributo insostituibile agli equilibri globali, nessuno dovrebbe arrivare a immaginare di poter costruire in solitudine un’autonoma condizione di benessere, senza trovarsi poi a fare i conti con quanto altri, come lui, possono
aver sottratto alla fertilità globale del nostro pianeta e, quindi, a se stessi.
Non si può non riconoscere una meta terminale implicita di autodistruzione in un mondo che, già fondato sulla dubbia convenienza della massimizzazione dei profitti, è passato alla follia suicida della massimizzazione delle rendite che provengono solo da movimenti di «capitali», senza produrre beni e servizi essenziali e tantomeno in favore del progresso umano. Nella linea di un «peggio» al quale non c’è mai fine, l’economia dell’epoca moderna, che si era inizialmente presentata come fenomeno «naturalmente» indirizzato verso la produzione artigianale di beni e servizi «essenziali» per la sopravvivenza, è andata sempre più connotandosi, poi, come fenomeno integrato di sviluppo del mercato dei consumi e di accumulazione di «capitali».
La produzione su vasta scala e il concetto di profitto, sempre in progressiva crescita e consentito dalle elevate disponibilità di capitali, sono arrivati oggi a fare leva anche su produzioni ispirate a quell’«immateriale», che anima il culto dell’«effimero» (il lusso, la moda… la «vita da bere») e che consuma risorse, senza preoccuparsi di rinnovarle, per dare risposte a domande mai formulate.
Una linea del «peggio» che sembra trovare il suo compimento estremo e finale nella massimizzazione delle «rendite parassitarie» e in quella finanza «creativa» che si considerano affrancate da ogni responsabilità verso l’economia reale, verso il conseguimento delle migliori condizioni di libertà e di correttezza e chiarezza delle relazioni e comunicazioni sociali e verso tutti quegli elementi di «benessere» che sono a fondamento del concetto di «progresso umano».