I ricercatori hanno pubblicato un rapporto che mostra la cronicità del malessere del bacino e scoperto con loro stesso stupore che ci sono ancora almeno 80.000 litri di greggio sparsi in centinaia di spiagge del golfo. Un risarcimento insufficiente
Dalla notte del 24 marzo 1989 sono passati venti anni. E nuovi eventi, disastri, crisi, guerre si sono sedimentati sulla memoria. Ma scavare in questa memoria è importante. Grazie alle ditte Columbia e Sorel, che ci hanno affiancato nel progetto, abbiamo potuto visitare il luogo dell’incidente e parlare con esperti e persone del luogo.
Agitando i sedimenti dei ricordi ed andando ad aggiornarli con le informazioni di oggi, abbiamo scoperto che il disastro ha lasciato una eredità profonda e duratura. L’Alsaka, lo stato il cui motto è: «Alaska: L’ultima frontiera» era considerata l’ultima wilderness del continente nordamericano, un territorio remoto, puro. Il disastro della Exxon Valdez lacerò l’ideale americano, riportando la collettività di fronte alla realtà che non esiste nessuna vera ultima frontiera.
Nel 1990 la giustizia americana impose alla Exxon 5 miliardi di dollari per «danni punitivi», che si sommavano ai risarcimenti ed alle multe (in parte restituite dalle assicurazioni) già pagate dalla compagnia. Ma agendo sul fattore tempo e continuando ad opporsi ai legali di parte civile, nel 1994 in sede di appello la Exxon ottenne che la «multa» venisse dimezzata. E non si fermò lì.
Nel 2007 ricorse in appello e la corte suprema ridusse i danni a 507 milioni di dollari, un decimo rispetto alla sentenza iniziale. Che la Exxon (a vent’anni dal disastro) si affretta ora a versare. Questo verrà distribuito tra le restanti 27.000 vittime (nel frattempo 6.000 anime sono passate a miglior vita, e non godranno del risarcimento).
Nel 2008 la compagnia ha fatto utili record: 47 miliardi di dollari.
Parlando con i pescatori di Cordova, un villaggio che fu colpito dal disastro, si percepisce un senso di rancore e di sfiducia nei confronti delle istituzioni, incapaci di difendere gli interessi della gente contro quelli delle società petrolifere.
I danni di oggi
Agitando i sedimenti si scopre che vent’anni dopo il Prince William Sound si è ripreso, sì, ma non del tutto. Il golfo è anzi divenuto un malato cronico. Questi sono i risultati di venti anni di ricerche degli scienziati della Exxon Valdez Oil Spill Trustee Council (Evostc), un organo creato con i fondi del disastro. La Evostc ha distribuito 178 milioni di dollari (provenienti dalle cause con la Exxon) a più di cento ricercatori. Quest’anno i ricercatori hanno pubblicato un rapporto che mostra la cronicità del malessere del bacino e scoperto con loro stesso stupore che ci sono ancora almeno 80.000 litri di greggio sparsi in centinaia di spiagge del golfo.
E che se il degrado del greggio continua al ritmo di 0-4% all’anno, passeranno decine di anni perché il Prince William Sound ritorni come era prima del 1989.
Anche la popolazione delle aringhe (che forniva il 50% dell’intero pescato del golfo) non si è mai ripresa. Migliaia di pescatori fecero bancarotta (molti non riuscirono più a coprire i debiti per le licenze e per l’acquisto dei pescherecci). La pesca delle aringhe è chiusa dal 1989 (a parte una corta riapertura agli inizi degli anni 90).
Oggi la pesca è ancora proibita, e non si vede segno di ripresa. La baia, circondata da montagne innevate e ghiacciai che si tuffano in fiordi spettacolari, a vederla è ritornata un paradiso. Ed in effetti lontre, uccelli, salmoni si sono ristabiliti. Però chi rivolta le pietre e studia la biologia del golfo sa che non è così.
. Sia la Alyeska sia la Guardia Costiera statunitense hanno investito nella prevenzione e nei piani di emergenza. Nel 1989 c’era una sola chiatta in grado di contenere 12.000 barili di greggio recuperati in mare. Oggi ce ne sono 7, possono contenere 800.000 barili, e sono distribuite in zone strategiche della baia. Le petroliere vengono scortate fino al mare aperto, e ci sono 367 pescherecci a contratto, istruiti ogni anno sulle emergenze, pronti ad agire. E c’è il Prince William Sound Regional Citiziens Advisory Council, un organo di confronto che media tra le compagnie petrolifere e le comunità locali, finanziato con una nuova tassa imposta alle compagnie petrolifere dopo l’incidente.
Un disastro per le popolazioni locali
Della vicenda, che la compagnia petrolifera darebbe per archiviata, c’è un aspetto spesso dimenticato. Ed è il risvolto umano, l’impatto sulle popolazioni locali, quelle che il golfo lo abitano da generazioni lontane, da prima dell’arrivo dei coloni europei. Sono i nativi, concentrati soprattutto nei villaggi di Tatitlek e Chenega Bay (in tutto circa 2.000).
Nella cultura tradizionale gli animali dopo la morte si reincarnano. Quando un cacciatore uccide una foca, per esempio, sta uccidendo l’animale che suo padre, e prima ancora suo nonno, aveva cacciato. La natura gli concede di fare questo ad una condizione: che l’animale sia ucciso con rispetto (non si deve indugiare sull’animale agonizzante, non si spreca alcuna parte, eccetera). Dopo il disastro i cacciatori di Chenega si dissero preoccupati che le foche avrebbero sentito l’odore del greggio e non sarebbero mai più tornate. Le foche che per generazioni si erano reincarnate sarebbero emigrate per sempre.
Per i nativi la natura della contaminazione era così poco famigliare che le soluzioni tradizionali non erano sufficienti. Si affidarono quindi alla scienza. Ma questa non poteva fornire risposte chiare ed immediate alle domande dei locali. I risultati delle ricerche erano inconclusivi. In alcuni casi, per esempio, gli scienziati dissero che la contaminazione poteva causare nei pesci una riduzione della crescita, o della fertilità, o una maggiore sensibilità alle malattie, ma, concludevano: «il pesce è comunque commestibile».
I cacciatori locali, questo non lo potevano accettare: «Non capisco: come possa essere buono qualche cosa che è malato?». Ad un certo punto avvenne perfino che, non potendo accedere alla caccia di foche, alla pesca o alla raccolta dei molluschi, in alcuni villaggi furono portati container carichi di hamburger ed altro cibo di origine «occidentale». Per i locali, però mangiare va al di là del semplice nutrimento fisiologico. Per loro, mangiare significa entrare a far parte dell’intero sistema naturale, entrare in contatto con lo spirito dell’animale cacciato. È un rituale cosmico, insomma.
Improvvisamente, le popolazioni locali, a cui era stata promessa una totale solidarietà da parte della Exxon, si sentirono insicure, sfiduciate. Un disastro naturale, come un terremoto, era diverso ed univa le persone nella difficoltà.
Le catastrofi naturali sono confinate nel tempo, insomma, passano. Se ne conoscono gli effetti, e spesso il punto di origine e di fine. E, soprattutto, sono percepite come un atto divino. Della contaminazione per idrocarburi, invece, si capì che i limiti e l’impatto erano sconosciuti. E, soprattutto, era causato da altri umani, insomma c’erano colpevoli in carne ed ossa. Che però non riuscivano a trovare una soluzione immediata.
In venti anni di discussione su come gestire i postumi del disastro e su come l’ambiente reagisca, la dimensione umana è stata trascurata. Questa è una delle eredità che entreranno nella memoria dei locali. E potrebbe servire da lezione, in caso di tragedie simili in mari a noi più prossimi.
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Le foto sono di Paolo Petrignani