In assenza di un esercizio diffuso della capacità umana di giudizio, si può far passare per solidarietà ciò che è, invece, una dissimulata forma di egoismo. È un passaggio, oggi particolarmente facilitato, dai significati di senso comune che i media diffondono, schierandosi anche loro, con l’informazione e i programmi d’intrattenimento, in favore di modi di vedere equivocamente «contrapposti».
Della doppiezza di questa «solidarietà» ne è piena la storia dell’uomo e se ne dà apertamente conto, in modo emblematico, anche nel Vangelo. In particolare è significativa la testimonianza riportata in quello di Giovanni (Giovanni 12, 3-8). Una donna aveva versato tutto un vasetto di unguento di «grande valore» sui piedi di Gesù; uno degli apostoli (Giuda, il discepolo traditore), scandalizzato per il mancato «utile» che se ne poteva ricavare, disse: «si poteva vendere questo unguento per 300 monete di argento, e poi distribuirle ai poveri»; il Vangelo poi continua: «Non lo disse perché si curava dei poveri, ma perché era ladro; teneva la cassa comune, e prendeva quello che c’era dentro».
Sicuramente un’occasione per un profitto illecito da condannare, ma ancor più evidente è l’emergere dell’equivoca natura della «solidarietà» (quella di Giuda) verso i poveri, implicitamente proposta al confronto con la «Solidarietà», senza secondi fini, senza «utile», di un sacrificio estremo, fino alla morte (di Cristo), speso per donare una promessa di salvezza «gratuita», senza alcuna convenienza.
Esiste, dunque, una «solidarietà» opportunista che può anche essere invocata quando serve per fare altro: per supplire, per esempio, alle irresponsabili mancanze d’imbarazzanti «impreparazioni», messe a nudo dalle emergenze, per aiutare chi ne ha bisogno, ma anche per chi approfitta di tali bisogni per propri interessi. Non sono certamente rari i casi di solidarietà che a volte hanno mostrato di essere anche ben altro. Non si tratta naturalmente dell’opera del volontariato, ma di ciò che a monte e a valle si può celare. Enti privati, ma anche pubblici e persino Istituzioni ad altissimo livello, possono decidere se non proprio di fare profitti, almeno di risolvere, favorendo «ben calcolati» interventi di «solidarietà», i problemi dovuti a propri scandalosi interessi e inadempienze.
Uno Stato che non si attrezza, con norme e strumenti operativi efficaci, per «fare prevenzione» (la forma più intelligente di solidarietà, che previene, anche, la sottomissione della dignità umana a estemporanee e umilianti subordinazioni) è uno Stato quantomeno ingiustificatamente distratto, se non proprio colpevolmente assente. In questi casi la solidarietà diventa un’indecente supplenza a inettitudini istituzionali di fondo, quanto meno nell’amministrare le risorse di un Paese. Se poi le stesse Istituzioni si presentano non solo senza una politica di «prevenzione» (dalle probabili calamità naturali, per esempio), ma anche non attrezzate per interventi immediati di emergenza, allora siamo ben oltre inammissibili e colpevoli negligenze, siamo proprio di fronte a segni d’incapacità politica di gestire i problemi di un paese. Per i livelli istituzionali a più alta responsabilità, il correre affannosamente dietro continue emergenze, è un segno di estremo degrado socio strutturale e si prefigura, anche, come «atto contro l’uomo» perché uccide persone, distrugge patrimoni di professionalità, di valori umani, di speranze e distrugge, così, la capacità della stessa democrazia di mantenere in equilibrio e vitale il tessuto sociale culturale ed economico di una comunità.