Questione combustibile nucleare
Intanto bisogna precisare che per i reattori nucleari tipo Epr serve l’uranio-235 che è solo lo 0,7% dell’uranio che si trova in natura (che è una miscela di uranio-238, piccole quantità di uranio -235 e piccolissime quantità di uranio-234).
L’uranio che si trova in natura è per lo più sotto forma di ossidi ed è contenuto prevalentemente in rocce granitiche uranifere, a concentrazioni comprese fra 5 e 25 ppm (parti per milione). Questo significa che con un milione di tonnellate di roccia si possono estrarre tra le 5 e le 25 tonnellate di uranio. E qui serve un apposito impianto di grandi dimensioni che faccia questo lavoro di trattamento delle rocce.
Una volta estratto l’uranio dalle rocce, bisogna arricchirlo nel suo contenuto di uranio-235 che è quello fissile, per portarlo dalla concentrazione dello 0,7% (come è in natura) a concentrazioni comprese fra il 3% ed il 5% (come serve per poterlo utilizzare). Questo significa che bisogna trattare da 5 a 7 tonnellate di uranio naturale per avere una tonnellata di uranio arricchito (dell’isotopo 235) e 4-6 tonnellate di uranio impoverito (dell’isotopo 235). Questo arricchimento passa attraverso un complesso processo chimico e fisico in appositi impianti di arricchimento (il processo è quello descritto).
Dipendenza dall’estero
La maggior parte dell’uranio proviene da: Canada (maggiore produttore mondiale), Australia, Kazakhstan, Russia, Namibia, Niger e Uzbekistan. Ma c’è anche l’Italia anche se per modeste quantità. L’Italia ha una zona uranifera che è quella a nord est di Bergamo, in val Seriana, attorno al comune di Novazza. Questa area è stata già esplorata dall’allora Cnen (trasformatosi poi in Enea) tra il 1960 ed il 1970 e appariva molto promettente. Lo sfruttamento allora venne fatto solo per fini di studio e ricerca e non per fini commerciali.
Problemi di risorse idriche e di ubicazione impianti
Pesanti sono i problemi di localizzazione sul territorio di questi grossi impianti. Per far funzionare un reattore nucleare tipo Epr, da 1.600 MW, occorrono per il circuito di raffreddamento, oltre 90 metri cubi di acqua al secondo (circa 345mila metri cubi ogni ora) che viene poi scaricata, surriscaldata di circa 8°C. Poiché nei fiumi non si può rilasciare acqua surriscaldata per più di 3°C e si deve garantire un rimescolamento adeguato per non creare barriere termiche alla fauna acquatica, occorrono in realtà circa 250 metri cubi di acqua al secondo che va, poi, riversata nel fiume (con una sovratemperatura di 3°C). E per proteggere la biodiversità acquatica, il fiume deve avere obbligatoriamente portate minime garantite (per 355 giorni/anno) superiori a 750 metri cubi al secondo.
Nessun fiume in Italia può garantire queste portate minime tutto l’anno (o almeno per 355 giorni), specialmente con le tendenze attuali di cambiamento del clima, ad esclusione del Po. Ma il Po può sopportare gli scarichi termici soltanto a due condizioni:
– limitatamente alla stagione primaverile ed autunnale (quando le portate minime sono più alte);
– limitatamente soltanto al tratto compreso fra la foce del Ticino e quella del Secchia (dove le portate minime sono più alte e non ci sono intergerenze con gli scarichi termici delle altre 4 centrali che già utilizzano il Po per il raffreddamento).
Di conseguenza, simili grossi impianti andrebbero costruiti in riva al mare. Ma anche qui ci sono problemi. Le coste italiane teoricamente utilizzabili (coste basse) ammontano complessivamente a meno di 4.000 km. Escludendo quelle urbanizzate, quelle turistiche, porticcioli ed altro, rimangono praticamente solo le zone costiere delle aree marine protette (i parchi costieri). In più, la maggior parte delle coste basse soprattutto dell’alto Adriatico (ma anche di altre 30 aree e piane costiere) sarà soggetta ad inondazione per innalzamento del livello del mare e intensificazione dei fenomeni estremi a causa dei cambiamenti del clima.
L’unica soluzione possibile in Italia è costituita dalle torri di raffreddamento ad umido ubicate in aree interne vicino ai fiumi di portata minima superiore a circa 80 metri cubi al secondo. Ma le torri di raffreddamento causano problemi di impatto sul clima locale. A ben valutare alla fine si scopre che impianti nucleari di grandi dimensioni in Italia non si possono fare, non tanto e non solo per i problemi di uranio, la sicurezza, le scorie ecc. (che pure sono grossi problemi), quanto soprattutto per la mancanza di territorio, cioè posti idonei da impegnare e bloccare opportunamente, non per qualche anno, ma per ben oltre un secolo (10 anni per la costruzione, 40-60 anni di esercizio e 40-60 anni di decommissioning), Sempre che si trovi un sito nazionale per il deposito dei rifiuti radioattivi, altrimenti non si tratta solo di un secolo ma di centinaia o migliaia di secoli.
Ammesso che a furor di popolo si volessero costruire impianti nucleari in Italia, bisognerebbe necessariamente ripiegare sulle piccole taglie: impianti di dimensioni inferiori a 500-600 MW elettrici e possibilmente dell’ordine dei 100-200 MW elettrici.
La soluzione migliore sarebbe quella di andare verso la generazione distribuita e le «smart-grids». Questo è il futuro più sostenibile per l’Italia.
Combustibili fossili e CO2
Per produrre le 40 tonnellate l’anno di uranio che servono per alimentare un reattore Epr da 1.600 megawatt, come quelli che si vorrebbero costruire in Italia, occorre partire da 8 milioni di tonnellate di roccia, che vanno estratte, macinate, diluite con 1,4 milioni di metri cubi di acqua e 22mila tonnellate di acido solforico, per ottenere 350 tonnellate di yellowcake, un ossido che contiene lo 0,7% di uranio fissile. L’arricchimento avviene per centrifugazione trasformando l’uranio in gas, l’esafluoruro di uranio. Per fare questo servono 370 tonnellate di fluoro, che alla fine del processo è altamente radioattivo, impossibile da smaltire e che comporta una gestione molto onerosa.
Per far funzionare un reattore Epr per un anno si consuma energia pari a 190mila tonnellate di petrolio con l’immissione in atmosfera di 670mila tonnellate di CO2.