Fuoco a volontà

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«Piromafia», disattenzione e negligenza ci costano 500 milioni di Euro l’anno, vale a dire ? 10 per ogni individuo

Quando il sole dardeggia e il caldo imperversa, puntuale come uno scrupoloso esattore il generale Fuoco, fortemente coadiuvato dall’ammiraglio Vento, si presenta nei luoghi più belli per pretendere il suo tributo estivo. Vittime designate, macchie, selve e pinete del Mezzogiorno d’Italia, e come di consueto della Sardegna in particolare. Quest’anno, magra consolazione, l’Italia si è trovata in buona compagnia, perché anche in Francia e Spagna, Corsica e Grecia lo spettacolo delle fiamme indomabili si è levato implacabile e dirompente.

Da molto tempo, infatti, ogni estate è teatro dello stesso rituale: una calamità naturale (che in realtà è del tutto artificiale) seguita da un diluvio travolgente di chiacchiere e promesse, ma accompagnata da fatti scarsi, e del tutto inconsistenti. Ogni anno vengono bruciati in Italia circa 50mila ettari di territorio, e nell’ultimo decennio si sono registrati oltre 120mila incendi (toccando punte d’un migliaio l’anno in Sicilia, e altrettanto in Calabria), mentre per ogni ettaro bruciato il costo sostenuto dalla collettività è pari ad almeno 10 milioni di Euro.

Ci costano 10 euro a testa

La «piromafia» endemica e la fiorente «industria incendiaria», ma anche la disattenzione e la negligenza degli italiani ci costano, in altre parole, 500 milioni di Euro l’anno, vale a dire ? 10 per ogni individuo, neonati compresi. Facile immaginare l’attenzione di ogni persona civile, o istituzione di buon senso, verso tutti i rimedi possibili. Non elencheremo qui le consuete soluzioni molto proclamate, ma poco praticate, perché riteniamo più utile sottolineare qualche punto meno noto.

Gli alibi e le colpe

Diciamo subito che in futuro sarebbe bene evitare la futilità degli annunci roboanti di taglie cospicue, interventi militari o paramilitari, o pulizie dei boschi come fossero giardinetti da liberare dalle sterpaglie. Poi, senza dubbio, sembra urgente adottare terapie di riconversione contro la «coniferòsi acuta», ovvero quel coniferamento dilagante che, tra fustaie di resinose e letti di aghi secchi, sembra fatto apposta per aprire la via al fuoco più incontenibile.

E che dire ancora della ragnatela di strade, carrarecce e piste che, fatte passare magari per utilissime «strisce tagliafuoco» portano auto, bivacchi, rifiuti, cicche e focolai in ogni angolo della natura? Perché non ricordare che quando nell’estate 1990 la splendida pineta di Castelfusano avvampò nel più terribile degli incendi, il fuoco non ebbe difficoltà alcuna a saltare di colpo anche una strada asfaltata larga come la Crisoforo Colombo? Perché tacere la folle imprudenza di quanti bruciano le stoppie mentre si leva un forte vento, abbandonando poi la campagna al suo destino? Come mai non si parla abbastanza dell’usanza primitiva, ma ancora assai diffusa, di un «fuoco pastorale», che porta danni e rischi molto più consistenti dei suoi discutibili benefici? E infine: a cosa servono dotti studi e costose pubblicazioni, se a differenza di altri Paesi il nostro non è neppure capace di avviare i classici rimedi preventivi, ben più efficaci?

Coinvolgere le popolazioni

Prima di tutto, occorrerebbe informare e coinvolgere la gente locale e gli ospiti venuti da fuori, in gran parte turisti responsabili. Perché ad esempio non esporre in Italia, come avviene negli Stati Uniti, le grandi tabelle con la freccia che segna, come un orologio, «il grado di pericolo di incendio»? Perché non rilanciare il volontariato giovanile, che rappresenta sempre il più attento e capillare sistema di segnalazione immediata di ogni filo di fumo? Perché aspettare sempre che per spegnere un incendio, anche piccolo, arrivi qualcuno da lontano, mentre altrove in ogni centro minore sono già pronte e addestrate, ed entrano immediatamente in azione con attrezzature idonee, squadre di cittadini? Perché non raccogliere testimonianze e documenti sui più gravi incendi locali in un centro natura, accessibile soprattutto alle scuole?

In conclusione, non si tratta di assistere al solito spettacolo, per dare il via alle geremiadi lamentose e al perenne scarico di responsabilità: ma piuttosto di «bruciare» le radici dell’incendio stesso, perché catastrofi come quelle che negli ultimi anni hanno martoriato il nostro Mezzogiorno, colpendo persino il «polmone verde» della Capitale, non abbiano mai più a verificarsi. Siamo noi a doverci rimboccare le maniche: evitando di gettare cicche dall’auto e di abbandonare rifiuti e bottiglie di vetro che poi diventano lenti ustorie. Riscoprendo e ripristinando quell’educazione civica un tempo fondamentale, ma ormai negletta e dimenticata. A sconfiggere il generale Fuoco sarà soprattutto il controllo sociale, quello che dando subito l’allarme consente l’intervento immediato: quello che estingue le brame di frenetici vandali e speculatori, spegnendo sul nascere ogni principio di incendio.

(Nelle foto di Archivio Centro Parchi due immagini di Giorgio Braschi di un incendio del 5 agosto del 1993 a Serra delle Ciavole sul Pollino)