I nodi di Bonn: Trasferimento di conoscenze e risorse

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Le modalità del trasferimento tecnologico stanno diventando la parte centrale del confronto poiché comprendono sia un problema di risorse sia un problema di riconoscimento della proprietà intellettuale e dei brevetti. I problemi dell’uso dei sink forestali e dei meccanismi flessibili e quello della definizione finale degli impegni

Continuano i lavori a Bonn nell’esaminare i testi da concordare in vista di Copenhagen sulla riduzione dei gas serra.

Le modalità del trasferimento tecnologico stanno diventando la parte centrale poiché comprendono sia un problema di risorse sia un problema di riconoscimento della proprietà intellettuale e dei brevetti che sono insiti nel trasferimento delle conoscenze.

I lavori si stanno svolgendo suddivisi in gruppi di lavoro tematici. Per quanto riguarda il Gruppo Awg-Lca (Ad Hoc Working Group on Long-term Cooperative Action) si è discusso di tecnologie e trasferimento tecnologico, di risorse finanziarie e di mitigazione. Per quanto riguarda il gruppo Awg-Kp (Ad Hoc Working Group on Further Commitments for Annex I Parties under the Kyoto Protocol) si è discusso di riduzione delle emissioni dei paesi industrializzati (Annesso I), di sink nell’uso del suolo e nella forestazione, e dei meccanismi flessibili. Ecco il dettaglio.

Gruppo Awg-Lca

1) Tecnologie e trasferimento tecnologico

Seguendo la discussione iniziata, sono state messe a confronto le proposte, coerenti con la «road map di Bali», su cui vi era convergenza di consensi, separandole da quelle per le quali non vi era consenso, o scarso consenso, con il risultato che solo sulla tematica del trasferimento tecnologico, intesa come acquisizione del know how e di «capacity building», vi è una larga convergenza.

Il Bangladesh ha suggerito, quindi, di mettere in priorità questa tematica e di legarla agli impegni «settoriali» di riduzione delle emissioni. Per la riduzione delle emissioni, infatti, le tecnologie da utilizzare non sono le stesse per qualsiasi settore produttivo (industria, agricoltura, impianti energetici, trasporti, ecc.). Poiché, le necessità di mitigazione dei Paesi in via di sviluppo sono differenti a secondo dei loro settori economici prevalenti, il trasferimento tecnologico per settori produttivi, e non in generale, ha più senso per le specifiche necessità di acquisizione del know how.

Molti paesi, tra cui l’Unione europea, hanno, allora, osservato che se questa doveva diventare la tematica prioritaria, sarebbe stato necessario creare tanti piccoli gruppi per valutare settore per settore le questioni tecnologiche e di trasferimento tecnologico. Ma la decisa opposizione della Cina a questa frantumazione in gruppuscoli, che fanno perdere di vista gli obiettivi e le modalità di fondo per il trasferimento tecnologico, ha portato la discussione su un altro percorso. Secondo la Cina obiettivi e principi sul trasferimento tecnologico sono la prima priorità, risorse finanziarie da mettere a disposizione e modalità di attuazione del trasferimento tecnologico sono la seconda priorità. Il tutto entro la direzione ed il controllo della Unfccc (United Nations Framework Convention on Climate Change)e non al di fuori.

Secondo gli Usa, invece la prima priorità, o quanto meno l’esigenza di una trattazione separata, è rappresentata dalle valutazioni nazionali delle necessità tecnologiche che i vari Paesi in via di sviluppo faranno, dalla «capacity building» necessaria ai loro bisogni, anche in termini di ricerca scientifica e di sviluppo tecnologico, ed, infine, dalle tecnologie ambientalmente sostenibili che devono essere il vero oggetto del trasferimento. Secondo gli Usa, bisogna riprendere anche la discussione sui «centri regionali» di innovazione tecnologica iniziata il giorno prima. La Norvegia ha osservato, invece, che senza opportuni «meccanismi di incentivazione» per il trasferimento tecnologico tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, qualsiasi proposta è destinata a fallire sul piano pratico.

Il Canada ha osservato che il problema non è il trasferimento di tecnologie nel senso di mettere a disposizione una nuova tecnologia, quando poi questa tecnologia non si sa usarla o gestirla. Il problema vero è il trasferimento delle conoscenze che sono alla base delle varie tecnologie e, qui ci si scontra con il problema della proprietà intellettuale e dei brevetti che impediscono un vero trasferimento tecnologico.

Bangladesh, Uganda, Indonesia, Argentina e Bolivia, partendo proprio dalle considerazioni del Canada hanno fermamente richiesto che sia discusso e modificato il regime e le norme internazionali di protezione dei brevetti e della proprietà intellettuale, che sono la vera barriera al loro sviluppo ed alla loro modernizzazione.

Ma, gli Usa si sono detti in disaccordo a procedere su qualsiasi discussione che, in sede Unfccc, tenti di modificare un regime legale sui brevetti e la proprietà intellettuale che è stato deciso e concordato in altre sedi e che fa parte delle regole condivise dei commerci e dei mercati internazionali. Gli Usa hanno, quindi, chiesto che questo tipo di discussione sia eliminato anche in futuro. La Unfccc non è la sede idonea.

2) Mitigazione

La discussione è iniziata con una introduzione della Cina. Il problema della mitigazione sul lungo periodo deve essere basato non solo sull’obiettivo finale (impedire che il riscaldamento terrestre superi i 2°C rispetto all’epoca pre-industriale), ma anche su un percorso condiviso che porti a tale obiettivo. Per questo percorso, la Cina propone che i paesi industrializzati, maggiori responsabili dell’inquinamento del pianeta in questi ultimi 200 anni, assumano obblighi vincolanti di riduzione delle emissioni, quantificati per traguardi temporali stabiliti (il primo traguardo è il 2020). La Cina, poi, propone che i Paesi in via di sviluppo, che solo in questi ultimi anni sono stati parzialmente corresponsabili dell’inquinamento del pianeta, ma che potrebbero avere maggiori responsabilità in futuro, assumano obblighi vincolanti, non su obiettivi di riduzione, ma su piani di sviluppo pulito ed azioni di mitigazione attraverso appropriati programmi nazionali di mitigazione (detti Nama), a cui i paesi industrializzati devono contribuire, non solo per la loro definizione, ma anche per gli strumenti di trasferimento tecnologico e di disponibilità di risorse finanziarie. Entrambi i tipi di impegni: obiettivi quantificati di riduzione delle emissioni per i paesi industrializzati e Nama per i Paesi in via di sviluppo, devono, poi, sottostare al regime di verifica e controlli.

Australia e Usa hanno detto che la questione, così come è stata impostata dalla Cina, ha bisogno di maggiori approfondimenti, non tanto sull’obiettivo ultimo o gli obiettivi intermedi, ma sul «come» costruire un percorso condiviso, che sia ambientalmente ed economicamente conveniente, senza portare disequilibri allo sviluppo economico di tutti, e più in generale all’economia mondiale. I paesi africani hanno invece ribadito che, poiché c’è anche un problema di regolamentazione internazionale della «emission trading», i Nama non devono rientrare nel commercio delle emissioni e nel mercato del carbonio, perché i Paesi in via di sviluppo sarebbero penalizzati.

L’Unione europea ha, invece, sottolineato la necessità di affrontare il problema del percorso di mitigazione sul lungo periodo, sulla base di criteri chiari e compatibili con gli obiettivi di questo negoziato e tenendo conto dell’esperienza già acquisita nella gestione del Protocollo di Kyoto.

Per quanto riguarda gli obiettivi quantificati di mitigazione a breve termine (2020), il lavoro del gruppo Awg-Lca deve essere integrato con il lavoro del gruppo Awg-Kp. Infine per quanto riguarda i Nama, bisogna tener conto che essendo «programmi» di azione sono validi fino a tanto che la realizzazione del programma rispecchia le previsioni programmatiche. Ma, spesso non è così. I Nama hanno un loro ciclo di vita affidabile limitato nel tempo, e devono necessariamente essere rivisti, o variati, a seconda dell’evoluzione del contesto socio economico nazionale nel quale sono inseriti. Pertanto, la redazione dei Nama, non può essere lasciata alla libera iniziativa dei singoli paesi, ma deve essere attuata con opportuni criteri che ne garantiscano la validità pluriennale e le conseguenti verifiche.

Cile ed altri paesi dell’America latina, invece, hanno chiesto che i Nama rappresentino un impegno, ma non un obbligo vincolante, e che la loro redazione e attuazione, supportata adeguatamente da strumenti finanziari e tecnologici, venga effettuata su base volontaria.

La discussione si è poi spostata sugli impegni di riduzione della deforestazione nei Paesi in via di sviluppo (azioni Redd). Tali impegni, da valere a tutti gli effetti come equivalenti alla riduzione delle emissioni, devono essere parte integrante dei Nama. La Svizzera ha proposto che nei Nama sia considerata anche la tutela delle popolazioni indigene e delle minoranze etniche. Molti Paesi in via di sviluppo hanno osservato che la lotta alla deforestazione e la tutela delle popolazioni indigene non può essere affrontata senza adeguate risorse finanziarie e senza la collaborazione dei Paesi sviluppati. Quindi, l’aspetto finanziario assume una forte rilevanza nelle azioni Redd che deve essere opportunamente considerata ed approfondita.

Infine la discussione ha preso in considerazione la questione se non sia meglio assumere come riferimento obblighi di riduzione delle emissioni per settori produttivi (industria energetica, industria manifatturiera, trasporto, agricoltura, pesca, ecc.) indipendentemente dal paese ove sono ubicati tali settori produttivi, piuttosto che fare riferimento a obblighi di riduzione omnicomprensivi per Paesi, indipendentemente dai loro settori produttivi che hanno originato le emissioni.

Il Giappone ha appoggiato la proposta della riduzione settoriale, evidenziando che, determinare obblighi di riduzione per settori, favorisce l’efficienza produttiva dei settori impegnati, favorisce lo scambio di tecnologie fra Paesi ricchi e poveri, e, insomma, migliora a livello globale l’efficacia delle azioni che si vogliono portare avanti. La Cina, pur essendo in linea di principio contraria, ritiene che gli impegni settoriali debbano essere posti su base volontaria e non come obblighi legalmente vincolanti.

L’Arabia Saudita invece non è d’accordo perché questo implicherebbe la standardizzazione internazionale dei settori produttivi, toglierebbe alle imprese la libertà di decidere come organizzarsi, strutturarsi e competere sui mercati internazionali e, infine, toglierebbe ai governi dei Paesi la libertà di incentivare o disincentivare, questo o quel settore produttivo, in relazione agli obiettivi di sviluppo economico posti.

L’Unione europea, al contrario, vede bene l’approccio per settori, purché questo approccio sia integrativo, e non alternativo, a quello della riduzione delle emissioni per paesi. Nel caso del settore dei trasporti internazionali, come il trasporto aereo e marittimo, l’approccio settoriale è certamente quello che dà le migliori garanzie di efficacia nei risultati da raggiungere, essendo molto difficile, o controverso, attribuire le emissioni da ridurre a questo o quel paese. per esempio: all’aeroporto (o porto) di partenza, oppure all’aeroporto (o porto) di arrivo, oppure distribuito sugli scali intermedi, oppure, ancora, alla sede legale o territoriale della compagnia aerea (o marittima)?

3) Risorse finanziarie

Il capitolo sulle risorse finanziarie, nel nuovo trattato, dovrà contenere i principi per l’accesso alle risorse finanziarie, come accedere e disporre di risorse finanziarie e, infine, come movimentarle per le necessità previste dal trattato (mitigazione, adattamento, tecnologie). La Cina e le Filippine hanno chiesto di focalizzare la discussione su alcuni problemi rimasti in sospeso quali quello dell’equità, il coordinamento nella distribuzione delle risorse e l’accesso da parte soprattutto dei paesi più vulnerabili ai cambiamenti del clima.

Gli Usa, nel ricordare che avevano già dato un loro contributo a due fondi già esistenti nella Unfccc, quello per lo sviluppo dei Paesi più poveri e quello speciale per combattere i cambiamenti del clima nei Paesi in via di sviluppo, hanno sottolineato il fatto che la disponibilità dei fondi va ricercata nel settore privato, perché i governi, stante anche la crisi internazionale, difficilmente avrebbero potuto provvedere, se non in parte, alle necessità. Ed i privati mobilizzano i loro investimenti solo se si trova un meccanismo per cui i loro investimenti diventano convenienti. Dunque su questo punto va approfondita la discussione.

L’Australia ed il Canada hanno osservato che le sorgenti di finanziamento devono essere le più ampie possibili: pubbliche (con il contributo di tutti i paesi), private (da investimenti che devono generare reddito), derivanti dai profitti ottenibili con il commercio delle emissioni e dal mercato del carbonio. In ogni caso la gestione di questi fondi non deve essere centralizzata.

Molti Paesi in via di sviluppo hanno, invece, richiesto che i fondi da mettere a disposizione dovrebbero essere per la maggior parte pubblici, perché le convenienze del privato spesso non coincidono con le convenienze delle azioni da svolgere nei Paesi poveri, soprattutto se queste azioni riguardano l’adattamento.

L’Arabia Saudita, dal suo canto, ha fatto rilevare che la richiesta di fondi a tutti i Paesi (inclusi quelli in via di sviluppo) contraddice lo spirito e le finalità della Unfccc, secondo cui sono i Paesi più ricchi ad aiutare quelli più poveri. Inoltre, i fondi pubblici devono essere quelli effettivamente disponibili e non devono essere ricavati «ad hoc» e per gli scopi di questo trattato, da tasse o da maggiori tassazioni, specie se queste tasse sono indirizzate a scoraggiare l’uso dei combustibili fossili.

La Cina, a sua volta, ha sottolineato l’eccessiva enfasi che si fa dei finanziamenti privati, la cui entità è molto aleatoria ed imprevedibile, spesso legata alla speculazione finanziaria piuttosto che all’investimento economico. Le certezze vengono sola da finanziamenti pubblici, la cui entità dovrebbe essere fissata come un contributo annuale, da parte dei Paesi sviluppati, compreso fra lo 0,6% e 1% del loro prodotto nazionale lordo. Non dello stesso avviso è stato il Messico, secondo il quale il contributo privato potrebbe essere significativo se si facesse in modo che azioni da attuare siano talmente appetibili da attrarre i necessari capitali.

Gruppo Awg-Kp

Il lavoro di questo gruppo, negli emendamenti del protocollo di Kyoto, è ormai a buon punto. I problemi più controversi rimangono quelli dell’uso dei sink forestali e dei meccanismi flessibili e quello della definizione finale degli impegni quantificati di riduzione delle emissioni per i quali sussistono differenze di vedute: se sia da considerare solo la responsabilità storica come chiedono Cina, India e Brasile o se sia anche opportuno includere le diverse circostanze nazionali (come le emissioni pro capite, il reddito pro capite o altro) mantenendo complessivamente, comunque, una riduzione entro il 2020, sull’insieme dei Paesi industrializzati, vicina al 40%, rispetto al 1990 e comunque, non inferiore al 25% e non superiore al 40%, come chiede l’Ipcc.

Gli approfondimenti in proposito si faranno successivamente. Altre questioni discusse, di minore importanza, hanno riguardato il format di dati ed informazioni, le procedure e questioni minori. Sulle possibili conseguenze economiche e socioeconomiche derivanti dalle misure di mitigazione la discussione sarà ripresa.

(Nella foto d’Archivio Fao di Giulio Napolitano, un’immagine sempre più frequente che può ricordare il problema dei profughi ambientali)