Per le foreste è allarme rosso

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In Brasile ogni 18 secondi un ettaro di foresta primaria scompare per essere poi convertito a pascolo. In Estremo Oriente piantagioni di palme da olio per farne biodiesel

Chi non ha sentito parlare almeno una volta dell’Amazzonia? È un oceano verde, il complesso forestale più vasto del pianeta, occupa una parte considerevole del Brasile e dell’America Meridionale, costituisce un’enorme riserva di acqua dolce, ospita un immenso reticolo di fiumi e cela una ricchissima biodiversità ancora da esplorare: secondo recenti stime potrebbero abitarvi, oltre a milioni di uccelli, mammiferi, rettili, anfibi e pesci, almeno dieci milioni di specie diverse di insetti, in gran parte ancora da scoprire. Ma in Amazzonia vivono anche circa 20 milioni di persone, e di quel territorio si stanno oggi a poco a poco impadronendo sterminate truppe di animali domestici, che già contano circa 60 milioni di bovini.

Impressionante è il ritmo frenetico con cui tutto ciò avviene, perché si calcola che ogni 18 secondi un ettaro di foresta primaria scompaia, per essere poi convertito a pascolo. È la rapida e irragionevole devastazione di un patrimonio naturale tanto prezioso, quanto irricostituibile. Vengono tagliati per primi i grandi alberi con legname migliore, tutto il resto viene poi bruciato e infine quel terreno denudato sarà invaso da allevamenti per carne e pellame, coltivazioni di cereali o piantagioni per biocombustibile. Quasi un quinto dell’Amazzonia è stato così «desmatado» (parola che in brasiliano significa «totalmente disboscato») nell’ultimo trentennio, con emissioni nell’atmosfera di circa 20 bilioni di tonnellate di carbonio: equivalenti all’inquinamento causato dai trasporti mondiali nel giro di quattro anni.

Non passa giorno senza che al Centro parchi internazionale di Roma giungano disperati SOS per le ultime grandi selve del pianeta: l’allarme più recente è di pochi giorni fa e viene dal Brasile, dove gli ambientalisti si sforzano di far rispettare gli impegni di un governo federale ondivago, per arrivare entro una decina di anni al traguardo del «disboscamento zero». A divulgare l’appello è stata la locale attivissima sezione di Greenpeace, che è riuscita anche a far bloccare bande di distruttori della selva e di loro acquirenti del pellame (usato dalla maggior parte di famose ditte produttrici di calzature alla moda). Impegnate nella battaglia anche altre organizzazioni, tra cui spiccano Amici della Terra (Friends of the Earth) e Salva le Foreste, mentre la voce di molti altri gruppi, ormai asserviti al potere, si fa sempre più flebile.

Ma non certo migliore è la situazione in Estremo Oriente, dove le foreste pluviali del Borneo, con tutta la straordinaria vita che vi pulsa, dall’orango alla ornitoptera (la farfalla più grande del mondo), vengono sacrificate con metodi a dir poco barbari, creando piantagioni di palme da olio per farne biodiesel: e, quel che più sbigottisce, producono quindi enormi quantità di gas serra con il beneplacito dell’Unione europea, sempre pronta a concedere le proprie ampie agevolazioni.

Le comunità indigene che tentano di opporsi alla totale distruzione del proprio ambiente di vita vengono affrontate e bersagliate dall’esercito in Perù, incarcerate in Malesia, violentate a Sarawak, mentre la grande isola della Nuova Guinea, divisa tra Indonesia e Papua-Nuova Guinea, scrigno lussureggiante di ogni tesoro della natura, rischia oggi di trasformarsi in un deserto. Magari un moderno «deserto verde» fatto di piantagioni industriali, vale a dire di sterminate file di alberi tutti uguali, a crescita rapida, dove l’autentica vita naturale scompare, mentre vengono voracemente consumati nutrienti e acqua, e il suolo diventa acido e sterile. «Se il deserto verde continua a crescere, presto non vi sarà abbastanza acqua per bere e terra per produrre cibo», gridano le tribù primitive, ma la loro voce resta inascoltata e il massacro continua nell’indifferenza generale. O peggio, trova appoggi e consensi non solo nella politica e nella finanza, ma anche nelle accademie e nei media. Perché negli ultimi anni sulle foreste tropicali e sul CO2 (anidride carbonica) si è scritto tutto e il contrario di tutto, fino a deificare la deforestazione come fonte benedetta di profitti e di prosperità.

Questo settorialismo egoistico, ancorché ammantato di miope scientismo, non convince e non paga, perché la vera scienza (quella indipendente, aperta e interdisciplinare) afferma verità ben diverse, quelle che il buonsenso dei popoli della selva aveva sempre intuito. «Abbattere le foreste è come svaligiare una banca, perché assicura benessere effimero e vantaggi di breve durata», afferma la rivista Science: a ogni saccheggio seguirà presto la crisi ecologica, con evidente regresso del livello di vita, perché quell’ambiente resta compromesso per sempre. Lo stesso concetto che, da tempo immemorabile, aveva ispirato la cultura tramandata dagli indios: «Gli alberi sono le colonne del cielo. Se si tagliano gli alberi, il cielo ci rovinerà addosso».

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Le foto sono dell’archivio Centro parchi internazionale