Predisposto un «Piano di gestione del Camoscio appenninico» della durata di tre anni, redatto in collaborazione con le Università di Siena, Torino e Bologna e con l’Agenzia regionale dei parchi del Lazio. Il Progetto è stato trasmesso al ministero dell’Ambiente
Tra le ricerche scientifiche del Parco, una delle più importanti è senz’altro quella, appena avviata, che riguarda il Camoscio d’Abruzzo o appenninico.
Contestualmente a questi studi specifici avviati, dopo anni, con le modeste disponibilità economiche attuali del Parco e che saranno coordinati da Sandro Lovari della Università di Siena, l’Ente ha predisposto un apposito e completo «Piano di gestione del Camoscio appenninico» della durata di tre anni, redatto in collaborazione con le Università di Siena, Torino e Bologna e con l’Agenzia Regionale dei parchi del Lazio, destinato, ove realizzato, a protrarre gli effetti per tempi ben più lunghi.
Come è noto, dichiara il Presidente del Parco Giuseppe Rossi, il Camoscio appenninico è una specie di considerevole valore conservazionistico, essendo l’unico mammifero endemico italiano presente nella «Lista rossa dell’Iucn degli animali in pericolo di estinzione» e l’unica specie italiana presente nella prima Appendice della Cites, la Convenzione sul commercio internazionale di Specie Animali e Vegetali.
Per questo merita la massima attenzione del Parco e meriterebbe la massima considerazione di tutte le altre Istituzioni in qualche modo interessate alla conservazione delle specie e della biodiversità. In primo luogo, ovviamente, dello Stato; ma anche le regioni, nel cui territorio è presente, dovrebbero essere particolarmente impegnate nella sua tutela, anche in base alla Direttiva comunitaria Habitat e al Decreto del Presidente della Repubblica del 1997 che la recepisce. La Direttiva, infatti, chiede alle regioni interessate la messa a punto di specifici protocolli e la misurazione di parametri per la determinazione dello stato di conservazione della specie, considerata specie «prioritaria». Purtroppo, realizzare azioni comuni e stabilire sinergie tra questi organismi non sempre è facile e spesso risulta impossibile.
Il Parco ospita la popolazione «madre» di questo ungulato, che negli anni Novanta è stato reintrodotto sui monti del Gran Sasso e della Maiella e più recentemente sui monti Sibillini, i tre «nuovi» parchi nazionali dell’Appennino centrale.
Studi approfonditi sono necessari in quanto esistono vari fattori di rischio della popolazione, secondo quanto indicato nel Piano d’Azione Nazionale e riguardano la strutturazione della popolazione, la interazione con altri ungulati selvatici e domestici, le problematiche sanitarie.
Anche nel Parco questi fattori sono presenti e occorre lavorare e lavorare bene per superarli.
Ecco allora il Piano di ricerca triennale e di gestione pluriennale che si incentra, in sintesi, sulla biologia e l’ecologia della specie; i parametri di popolazione e il monitoraggio sanitario; gli studi sulle praterie di alta quota e le diversità vegetazionali e relativo monitoraggio dell’alimentazione; la valutazione di eventuali interferenze comportamentali; la determinazione dei parametri di popolazione e la sovrapposizione spaziale con altre specie di ungulati, selvatici e domestici; la determinazione delle modalità di riproduzione. Un’attenzione speciale verrà posta al monitoraggio e alla gestione sanitaria.
Il Progetto è stato trasmesso al ministero dell’Ambiente, dal quale si attendono (è l’auspicio dell’Ente Parco) partecipazione al progetto, collaborazione opportuna e, ovviamente, risorse finanziarie appropriate. Sarebbe molto importante e un primo bel segnale nell’Anno internazionale della Biodiversità.
(Fonte Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise)