Clima – Perché in crisi gli accordi globali

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L’accordo a Copenhagen era irraggiungibile perché la strategia di fondo era errata. Bisognerebbe partire dagli strumenti che facciano intravedere soluzioni possibili per piccoli step. Si è parlato anche di risparmio energetico e di nucleare

A Lecce, in occasione del Festival dell’Energia conclusosi ieri, si è parlato anche di Copenhagen, la conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento del Clima tenutasi il dicembre scorso. Alla tavola rotonda, organizzata e moderata da Antonio Navarra, presidente del Cmcc (Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici), hanno partecipato Richard Duke, del ministero dell’Energia statunitense, Ying Chen, dell’ Accademia delle Scienze Cinese e Corrado Clini, del ministero dell’Ambiente italiano.

Dagli interventi dei partecipanti è emerso che l’accordo a Copenhagen era irraggiungibile perché la strategia di fondo era errata. Una strategia che voleva fissare dapprima la necessità di ridurre le emissioni di anidride carbonica entro una certa data e in un secondo momento tentava di individuare gli strumenti adatti per raggiungere l’obiettivo.

Quello che si è avuto è stata, o voleva essere, un’imposizione dall’alto, una camicia di forza di taglia unica che non si adattava alle diversità e alle situazioni economiche più varie dei paesi intervenuti alla Conferenza. La conclusione scontata e prevedibile è stata il non raggiungimento di alcun accordo ma solo di dichiarazioni di intenti non vincolanti. La via dell’accordo vincolante, seguendo questa strategia, sembra finita e prossimamente a Cancun in Messico non andrà meglio che a Copenhagen se la mentalità resterà la stessa.

E allora quali le possibili soluzioni per far fronte a questo problema così complesso che interessa tutti?

L’idea da perseguire, secondo quanto riportato dai rappresentanti internazionali che hanno relazionato nell’ambito della conferenza, deve essere quella di partire dagli strumenti che davvero facciano intravedere soluzioni possibili. Questo in termini pratici, significa dare spazio a tecnologie meno inquinanti ed energivore, evidenziare il loro finanziamento e predisporre il trasferimento delle stesse in quei paesi dove l’applicazione risulti più utile.

Quest’ultimo punto è determinante, bisogna incanalare gli sforzi maggiori verso quei Paesi in via di sviluppo come per esempio Cina, Brasile e India; è in questi paesi che, infatti, il tumultuoso sviluppo avviene impiegando tecnologie energivore e fortemente inquinanti, ancora strettamente connesse al carbone. Si tratta quindi di formare partenariati fra paesi più avanzati e paesi emergenti per la diffusione di nuove tecnologie la cui efficienza ha senso non solo da un punto di vista ambientale ma anche industriale. Ed è questa la vera strategia da inseguire. Non degli accordi finali ma delle soluzioni parziali tra complessi di nazioni che abbiano la possibilità di concentrarsi su problemi reali e vicini alle varie realtà. Altro elemento che bisogna valutare con impegno e che durante la conferenza si è sottolineato, è la necessità di risorse finanziarie predisposte per la causa.

Non è una questione di aiuti, come i 100 miliardi di dollari promessi a Copenhagen del tutto ridicoli se si considera che solo per la Cina ne sono stati calcolati molti di più, ma una mobilitazione di mezzi monetari assolutamente concentrati in grandi settori come quello industriale.

Il tutto in un quadro di regole internazionali che incoraggino gli investimenti. Il modello che potrebbe essere preso come esempio è l’accordo di Montreal sui Cfc e il buco nello strato di ozono. Con l’accordo, infatti, questi composti inquinanti sono stati gradualmente proibiti dando alle industrie il tempo necessario di adeguarsi alle nuove tecnologie.

La strada per ridurre la CO2 potrebbe seguire un percorso analogo mettendo gradualmente fuori gioco molte tecnologie superate sostituendole con altre più efficienti. Questo però gradualmente e per step successivi altrimenti si rischia la recessione in un periodo, questo, in cui l’economia globale già risulta debole e arranca a mantenere alta la fiducia della gente. La ricetta per ridurre l’aumento della CO2 sembra in conclusione proprio questa: efficienza tecnologica con finanziamenti ad hoc e regole condivise che valutino le esigenze di tutti con la predisposizione di partenariati per soluzioni da fronteggiare a piccoli passi. La camicia di forza, insomma, di taglia unica, cioè il raggiungimento ostentato di un accordo globale, non sembra più, dopo Copenhagen una via percorribile.