La regione che si affida alle fonti rinnovabili e al turismo di qualità. Il dossier nazionale «Texas Italia» firmato Legambiente. 100 nuove trivelle minacciano il mare e il territorio italiano
Ad oggi nel Belpaese sono stati rilasciati 95 permessi di ricerca di idrocarburi, di cui 24 in mare e 71 su terra. A questi numeri si devono associare le 65 istanze presentate negli ultimi due anni. Questi solo alcuni degli argomenti di presentazione del dossier nazionale «Texas Italia», trattati a Monopoli, oggi, in occasione della Tavola Rotonda «La minaccia del petrolio sul futuro sostenibile della Puglia». Quello che preoccupa è la sfrenata voglia di ritornare all’oro nero, fonte di energia privilegiata e spesso utilizzata in maniera diffusa anche a scapito di quelle fonti di energia rinnovabili, il cui effettivo utilizzo, porterebbe miglioramenti in vari campi.
La voglia di ricercare idrocarburi è effettuata senza coscienza in aree localizzate su terra, in mare e proprio parlando di quest’ultimo vediamo la non esclusione di aree marine protette. E tutti i mari sono interessati da questa folle corsa alla scoperta di barili da riempire e da vendere al miglior offerente; nell’oscuro scenario troviamo, infatti, il mar adriatico centro-meridionale, lo Ionio e il canale di Sicilia.
Tra le ultime istanze presentate, interessante risulta rilevare la richiesta della Petroceltic Italia di un permesso di ricerca nell’intero specchio di mare compreso tra la costa Teramana e le isole Tremiti. Sotto assedio anche mare e coste sarde, sulle quali pendono due recenti istanze della Saras e due più vecchie della Puma Petroleum; la stessa società detiene lotti nei pressi dell’isola d’Elba e nel Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano.
Ed è ultima la notizia della partenza di una nave incaricata dalla Shell, che ha l’onere di eseguire prospezioni per individuare quello che viene considerato «un autentico tesoro» che porterebbe l’Italia a confermarsi «il Paese con più idrocarburi dell’Europa continentale». Peccato che le attività estrattive, anche in questo caso, si sposerebbero male con le attività dell’area marina protetta delle isole Egadi e con l’economia della zona che risulta basata prevalentemente sul turismo e sulla pesca.
Nei nostri mari oggi operano 9 piattaforme per un totale di 76 pozzi, da cui si estrae olio greggio. Due sono localizzate di fronte alla costa marchigiana, tre di fronte a quella abruzzese e le altre quattro nel canale di Sicilia di fronte al tratto di costa tra Gela e Ragusa.
Passando dal mare alla terra, le aree del Paese interessate dall’estrazione di idrocarburi sono la Basilicata, l’Emilia Romagna, il Lazio, la Lombardia, il Molise, il Piemonte e la Sicilia.
Complessivamente lo scorso anno in Italia sono state estratte 4,5 milioni di tonnellate di petrolio, circa il 6% dei consumi totali nazionali di greggio. Ma la quantità rischia di aumentare, conseguentemente all’aumentare delle istanze e dei permessi di ricerca di greggio nel mare e sul territorio italiano.
Un gioco frenetico che a livello economico non regge il passo. Infatti, il Paese consuma 80 milioni di tonnellate di petrolio l’anno e le riserve di oro nero made in Italy, agli attuali ritmi di consumo, consentirebbero all’Italia di tagliare le importazioni per soli 20 mesi.
E questo alla luce del più grande disastro ambientale di tutti i tempi causato proprio da una piattaforma petrolifera, la Deepwater Horizon della BP (British Petroleum), che operava a bassissimi controlli sulla sicurezza degli impianti, al largo del golfo del Messico.
Italia senza regole
Stefano Ciafani, Responsabile scientifico Legambiente, proprio in riferimento a questo gravissimo incidente, commenta «sono state davvero propagandistiche le risposte date dal nostro governo. Il 3 maggio scorso, l’ex ministro Scajola ha convocato i rappresentanti degli operatori offshore per avere notizie sui sistemi di sicurezza ed emergenza senza risultati concreti. È importante notare che il risanamento per un incidente come quello americano nel nostro paese non sarebbe risarcito in maniera adeguata dai responsabili. Infatti ancora oggi le nostre leggi non hanno ancora risolto il problema del risarcimento in caso di disastro ambientale e inoltre le piattaforme non sono coperte dalle convenzioni internazionali».
Le risposte operative date dal governo sembrano forti soltanto in apparenza. Permettere le trivellazioni, a seguito di approvazione di Via, oltre le 5 miglia lungo l’intero perimetro costiero nazionale e oltre le 12 miglia per le aree marine protette, risulta agli occhi di chi ha una ben pur minima conoscenza della questione, un modo per tergiversare il problema. In caso di incidente, infatti, sarebbe comunque un dramma per i nostri mari, reggere i danni ambientali che ne deriverebbero; senza dimenticare che il Mediterraneo è un «mare chiuso» se messo a confronto con l’oceano che, invece, permetterebbe una movimentazione maggiore delle acque. Singolare è anche notare che gli attori chiamati a dare un proprio parere vincolante alla questione, sono differenti se trattasi di ricerca di idrocarburi in mare o su terra. Infatti, se l’area in questione è su terra oltre lo Stato vengono coinvolti anche gli enti locali (Regioni, Province e Comuni), se il permesso è per eseguire ricerche sul sottofondo marino è previsto solo il parere da parte dello Stato e gli enti locali sono esclusi dalle procedure, anche quando si tratta di aree a ridosso della costa, in cui un’attività di questo tipo modificherebbe radicalmente le attività locali di sviluppo. Lo stato poco conosce, a livello puntuale, il bene del territorio e della gente che lo anima; risulterebbero, pertanto, delle decisioni troppo disconnesse da quello che è il reale benessere del luogo.
Nessun vantaggio occupazionale
E dal punto di vista occupazionale, ci sarebbero agevolazioni?
A quanto pare no. Le ultime stime di Assomineraria, infatti, quantificano la rilevanza economica e occupazionale del settore estrattivo, in Italia, come segue: un risparmio di 100 miliardi di euro nelle importazioni di greggio dall’estero nei prossimi 25 anni e la creazione di 34mila posti di lavoro. Numeri che non reggono se confrontati con un investimento nel settore della green economy e delle rinnovabili che, invece, porterebbe in Italia dai 150 ai 200mila posti di lavoro entro il 2020 e permetterebbe di incanalare le coscienze verso una formazione individuale più sostenibile, attenta al benessere dell’ambiente e a un’economia basata su un basso tenore di carbonio, una trasformazione questa necessaria, visti gli obiettivi vincolanti degli accordi internazionali sui cambiamenti climatici (20% risparmio energetico, 20% produzione da fonti rinnovabili, 20% riduzione emissioni di CO2).
La Puglia la regione più a rischio
E la Puglia in questo scenario è la regione del Mezzogiorno maggiormente minacciata dalle trivellazioni per la ricerca di idrocarburi. Per avere una fotografia del fenomeno basti pensare che il suolo pugliese è stato trivellato sinora da 9 pozzi di petrolio sulla terraferma e 5 sul fondo marino. E in linea con quanto accade a livello nazionale, neanche in Puglia la voglia di petrolio risparmia le area di maggior pregio. Oltre le Tremiti anche il tratto da Monopoli al Salento, è interessato da istanze di permessi di ricerca.
Anziché investire nella folle corsa all’oro nero e all’atomo si dovrebbe puntare con decisione sullo sviluppo di efficienza energetica e di fonti pulite rinnovabili, sulla promozione di un turismo sostenibile e di qualità, onorando la reale vocazione dei territorio, ad oggi, fortemente deturpato.