Ecco perché Serengeti non può morire

789
Tempo di lettura: 2 minuti

 

 

Serengeti è una parola bellissima, che nella lingua Masai significa «pianura sconfinata»: ma è anche un nome che evoca nell’immaginario collettivo ricordi profondi. Un grande Parco Nazionale creato nel 1951 dal Protettorato inglese che riceveva in affidamento il Tanganika dalla Germania: esteso un milione e mezzo di ettari, che succedeva ad un’Area protetta dal 1940, a sua volta preceduta da una più piccola Riserva di caccia, risalente all’anno 1929. Dal 1961 è stato riconosciuto anche parte del Patrimonio Mondiale dell’Unesco. È il vero gioiello della corona dei 13 Parchi della Tanzania, un Paese che protegge il 14% del proprio territorio, e può essere preso a modello da molti giovani Stati dell’Africa.

 

All’epoca, il Parco venne affidato alla competenza di Bernhard Grzimek, grande zoologo e naturalista che fu anche Direttore dello Zoo di Francoforte e autore di una famosa Enciclopedia degli Animali. Fu per merito suo che Serengeti divenne uno dei Parchi più importanti del mondo, perché dopo averlo organizzato e scongiurato molti pericoli, egli scrisse il celebre libro «Serengeti non può morire». Un’opera che ispirò anche l’omonimo documentario, al quale nel 1959 venne assegnato il premio Oscar, portando così il tema della salvezza della fauna selvatica dell’Africa all’attenzione del mondo intero. Ma nello stesso anno, per un crudele destino, proprio a Serengeti il figlio Michael, che aveva sempre collaborato con lui nelle attività di ricerca e salvaguardia della natura, cadeva vittima di un incidente, allorché il piccolo aereo con cui effettuava i conteggi della fauna entrò in collisione con un grosso avvoltoio, e si schiantò al suolo.

 

In anticipo sui tempi, Grzimek aveva ben compreso l’importanza delle terre protette per il futuro dell’uomo. Vale quindi la pena di ricordare le sue antiveggenti parole: «Nei prossimi decenni e nei prossimi secoli gli uomini non andranno più a visitare le meraviglie della tecnica, ma dalle città aride migreranno con nostalgia verso gli ultimi luoghi in cui vivono pacificamente le creature di Dio. I Paesi che avranno salvati questi luoghi saranno benedetti e invidiati dagli altri, perché saranno la meta di fiumi di turisti. La natura e i suoi liberi abitanti non sono come i palazzi distrutti dalla guerra: questi si possono ricostruire, ma se la natura sarà annientata nessuno potrà farla rivivere».