Sei milioni di persone in zone a rischio idrogeologico

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Secondo lo studio «Terra e Sviluppo. Decalogo della Terra 2010» sono considerati ad elevato rischio idrogeologico 29.500 chilometri quadrati del nostro territorio nazionale, ossia luoghi dove un qualsivoglia evento naturale di proporzione eccezionale potrebbe determinare effetti devastanti per cose e persone

E anche quest’anno, come ogni anno, abbiamo dovuto registrare alcune vittime a causa del dissesto idrogeologico che rappresenta, da un po’ di tempo, la quotidiana cronaca del nostro Paese. Ed è a seguito di questo caposaldo, che si risente l’esigenza di far crescere l’idea, a tutti i livelli, partendo dal singolo individuo e arrivando agli amministratori locali e ai rappresentanti politici, che la priorità nazionale è tutelare una vita sicura a quanti abitano il territorio.

A risposta di questo il Consiglio nazionale dei geologici in collaborazione col Crisme, ha presentato la ricerca «Terra e Sviluppo. Decalogo della Terra 2010». Secondo questo studio, sono circa 6 milioni le persone che abitano nei 29.500 chilometri quadrati del nostro territorio nazionale considerato ad elevato rischio idrogeologico, ossia in quei luoghi dove un qualsivoglia evento naturale di proporzione eccezionale potrebbe determinare effetti devastanti per cose e persone.

E ora un po’ di numeri per capire l’entità del problema: un milione e 260mila edifici a rischio di frane e alluvioni e di questi oltre 6mila sono scuole, mentre gli ospedali sono 531. Per la popolazione è a rischio il 19% della stessa, ovvero oltre un milione di persone, in Campania, 825mila in Emilia Romagna e oltre mezzo milione in ognuna delle tre grandi regioni del Nord, Piemonte, Lombardia e Veneto. Ed è proprio in queste regioni, insieme alla Toscana, che le persone e le cose sono maggiormente esposte a pericoli, per l’elevata densità abitativa fortemente connessa all’ampiezza dei territori che registrano situazioni di rischio.

Lo studio, che sarà pubblicato nella sua completezza nel prossimo numero del trimestrale del Consiglio nazionale dei geologi «Geologia Tecnica e Ambientale», analizza principalmente dieci questioni fondamentali che dalla descrizione delle dinamiche della popolazione italiana e del contestuale scenario previsionale si muovono alla misura del consumo del suolo procedendo poi ad analizzare il dissesto idrico e quello sismico; si esamina anche il tema della popolazione e del congiunto patrimonio edilizio a rischio approfondendo successivamente argomentazioni quali la questione dei rifiuti, il costo reale del dissesto idrogeologico e quello legato ai terremoti con un’analisi economica puntuale degli investimenti in campo ambientale effettuati dal secondo dopoguerra ad oggi; argomento oggetto di studio è anche il quadro della pianificazione ambientale ripartito tra i piani di assetto idrogeologico, paesaggistico, territoriale e in ultimo è affrontata anche la questione energetica principalmente legata alle nuove fonti di energia rinnovabile dando particolare attenzione a una di queste, la geotermia. E dal punto di vista economico, quanto costa intervenire per metterci in sicurezza dall’ambiente?

Bene, secondo il centro studi del Cng, dal dopoguerra ad oggi si sono spesi circa 200 miliardi di euro per contenere il dissesto idrogeologico e dei terremoti; questo numero tiene conto delle spese preventive ma soprattutto di quelle destinate ad interventi di ripristino successivi alle calamità naturali. Il valore dei danni causati dagli eventi franosi e alluvionali, sottraendo pertanto dal conto i danni imputabili ai terremoti, dal dopoguerra ad oggi è stimabile in circa 52 miliardi. Mediamente si tratta, in definitiva, di circa 800 milioni all’anno, una cifra che nell’ultimo ventennio è comunque aumentata assestandosi intorno al miliardo e 200 milioni annui. Il ministero dell’Ambiente stima il fabbisogno finanziario per mettere in sicurezza idrogeologica l’intero territorio nazionale in 40 miliardi. Di questi il 68% riguarderebbe interventi relativi alle 12 regioni del Centro Nord e il 32% le 8 regioni del Mezzogiorno. Agli attuali livelli di spesa e in assenza di calamità naturali ci vorrebbero, concretamente, 33 anni.

Ma la salvaguardia della popolazioni e dei territori può aspettare? Di certo no, bisogna trovare gli strumenti necessari per colmare queste mancanze e per rendere il territorio fruibile e sicuro da subito. Siamo stanchi di vedere tragedie preannunciate in televisione con cadenza, anch’essa, prefissata. Le soluzioni per rovesciare atteggiamenti e impostazioni di vecchio stampo che tanto male hanno inflitto ai territori, sempre più umiliati nella loro intima peculiarità, e alle popolazioni residenti è un modello di tutela e di sviluppo delle attività, nel suo più ampio significato del termine, che non sia visto sotto un aspetto limitante delle stesse ma che sia rispettoso e fortemente interconnesso alle specificità esistenti, siano queste di natura ambientale, culturale, ecc. E per far questo ci vogliono politiche attente che sappiano dare, in termini economici, le giuste priorità, professionisti coinvolti in maniera preponderante negli iter tecnici procedurali che sappiano essere professionali sempre e comunque e partecipazione d’insieme alla cosa pubblica intesa come una presenza assidua alle dinamiche decisionali che coinvolgono tutti. Perché non ci si trovi davanti ad un’altra strage annunciata dicendo, di chi è la responsabilità? i problemi ci sono, si conoscono e ad essi è bene trovare soluzioni immediata.