È venuta a mancare in questi giorni. Teologa, saggista, eremita ha attraversato il pensiero contemporaneo con le sue penetranti riflessioni sull’appassionante straordinarietà della nostra realtà vitale, che volavano alto su quel fare, e fare sempre più presto, che affligge i nostri tempi
Adriana Zarri è venuta a mancare in questi giorni e mi sono, così, trovato a ripensare a quelle sue penetranti riflessioni, sull’appassionante straordinarietà della nostra realtà vitale, che volavano alto su quel fare, e fare sempre più presto, che affligge i nostri tempi.
La sua decisone di vivere in un ambiente non invaso dalla fretta e più vicino ai ritmi degli equilibri naturali (senza peraltro fuggire dalla realtà, anzi per viverla anche come teologa, nella dimensione di un più libero e responsabile discernimento umano delle cose), è stata una meditata scelta di vita, ma ha anche un suo valore simbolico, un valore che, per sua natura, tende ad identificare univocamente il personaggio che lo esprime.
Il peso attribuito dal «senso comune delle cose» a questa sua scelta emblematica mi ha portato ad una riflessione più generale, sui meccanismi che si attivano, quasi automaticamente, quando cerchiamo di richiamare alla nostra memoria un «personaggio rilevante» del nostro vissuto, e finiamo col fare riferimento a ciò che di materiale e immateriale, nel bene e nel male, si è mosso intorno a lui.
In questi casi più che la persona ricostruiamo, pur con le migliori intenzioni, solo il suo «fare», i suoi «successi», i «riconoscimenti accademici» ricevuti… Una scelta che spesso appare obbligata perché al di là dei titoli, delle competenze, dei ruoli sociali svolti, degli apprezzamenti riscossi o, sui fronti opposti, delle critiche, del «potere» esercitato, delle strumentalizzazioni accettate, per molti non c’è nient’altro che possa venire loro in mente.
Per ricordare la Zarri, questa impostazione sarebbe un’ingiusta lettura del suo modo di essere che si è proposto, invece, come esperienza di vita da condividere e non certo come modello di riferimento. Le sue scelte di fede e di attenzione alla natura non sono punti di arrivo di uno studio, ma argomenti di una ricerca e di un dialogo da continuare anche oltre il suo contributo. Il vento dell’apparire, quello che soffia imponendo la propria rotta e che distrae da tutte le altre possibili direzioni, è un vento che non ha toccato la vita di questa studiosa delle Cose, della Natura e del Divino. È, però, un vento che rischia di pesare molto su tutto ciò che si racconta, su di lei, nelle analisi, nelle valutazioni e nei giudizi espressi sulla rappresentazione solo formale delle sue scelte di vita. Ma è vero, anche, che non è possibile, in alternativa, entrare nell’intimo dell’essere di una persona, qui in particolare della Zarri, senza finire col vedere in lei solo quello che siamo capaci di intuire, facendola quasi diventare uno specchio dei nostri pensieri e non riuscendo, certamente, a mostrarla nella sua essenza.
In una relazione, che supponiamo interessante o che addirittura ci affascina, ci disponiamo naturalmente a riconoscere le affinità e a sottovalutare le diversità, almeno fin quando queste non affiorano drammaticamente nei momenti delle scelte. Di fatto diamo sostanza ad un pregiudizio, pur coltivato in buona fede o a fin di bene, per poter costruire qualcosa che sia un’affidabile e rassicurante immagine di un altro che sia in grado di godere della nostra fiducia. Ma più che tentare, invano, di oggettivare l’esistenza vitale dell’altro, chiudendolo in una sua studiata «biografia», potremmo, invece, con più trasparenza, con più correttezza e con minore approssimazione, «verificare» e «riflettere» sull’«impatto» che l’altro ha o può aver avuto sui modi di pensare e di comportarsi propri, di altri singoli individui e delle loro comunità. Dovremmo quasi chiedere non informazioni su «chi è l’altro», ma chiederci «quale contributo può aver fornito l’altro» nella costruzione personale e condivisa dei nostri modi di essere e di pensare. È su questo che dovremmo soffermarci, per ritrovare un senso delle relazioni che possa dare valore umano alle cose e che possa permettere di andare oltre gli affanni del vivere e sopravvivere.
Quelle della Zarri sono riflessioni che spesso sembrano avere anche l’impronta della preghiera, di un invito a pregare per le cose su cui riflette: i «doni della Natura» solo perché esistono e non solo perché sono utili, ma anche i «legami» che uniscono tutto il Creato e l’uomo in una stessa finalità da cercare insieme. I «segni» del divenire della Natura che invitano a cercare il senso della vita fra le umane «insicurezze», ma anche fra le «fermezze» del non poter accettare una «diseguaglianza» fra uguali, una «mancata fraternità» fra fratelli. Tutte cose che colpiscono la dignità di chi le riceve, così come di chi ne è l’artefice.
Ho seguito i suoi numerosi articoli proposti da un periodico quindicinale («Rocca» della Pro Civitate Cristiana di Assisi) e, anche se il loro ricordo si perde nel lungo tempo di diverse decine di anni, il loro senso ha sicuramente accompagnato e accompagna, senza invaderle, le mie esperienze di vita.
La «Solitudine» per riflettere e non come isolamento o fuga da un mondo malvagio.
La «Relazione» per vivere e condividere l’incompiutezza di una umanità che si riconosce nell’esplorare e nel cercare (senza indulgere ai falsi conforti delle sicurezze), nell’interrogare e interrogarsi sul Creato (sul senso essenziale della sua armonia), nell’interpretare i segni con i quali la Natura si rivolge a noi, nel dare risposte all’Alleanza e all’Amore che si fanno carico del costo di mettere insieme ogni cosa dell’universo, come in un’Arca di Noè, per annunciare, senza distinzioni, il Progetto divino dell’approdo finale alla Salvezza.
Le «Incertezze», non per debolezza del pensiero, ma per non rischiare l’inettitudine (del rinunciare ad affrontare le incoerenze della condizione umana) e per non rischiare l’accettazione di sterili soluzioni meccaniche e di prepotenti imposizioni, di un pensiero forte ed unico, che le contingenze possono promuovere, come oggetti di moda, in favore di un infondato ed effimero presente.
Il «Rispetto» per un concetto di ordine superiore (perché non può essere contenuto nelle limitate dimensione dei nostri pensieri) che rischia, paradossalmente, di attribuire, gli infiniti equilibri del Creato, alle categorie umane del disordine.
L’«Attenzione» vigile all’ascolto per non cadere nell’ipocrisia delle devozioni meccaniche e irresponsabili che alla «Carità» preferiscono anteporre il «fare» di una ideologia religiosa fondamentalista.
La «Fede» alimentata dal «senso» delle cose che è da cercare in quel «Tutto» che mantiene vitali il Creato e la nostra libertà di poter scegliere, senza essere costretti, di agire in modo consapevole e responsabile.