Se le pale eoliche diventano «piantagioni»

1171
eolico1
Tempo di lettura: 4 minuti

È stato calcolato che sui Monti Dauni le pale esistenti al 2005 impattavano su 40mila ettari con la conseguenza della graduale scomparsa di quasi tutte le coppie nidificanti di Nibbio reale

È stato bello veder per la prima volta una pala eolica, un’immagine di mulino a vento che ha segnato importanti paesaggi dell’Europa centrale. E poi si trattava di qualcosa che finalmente realizzava tecnologie lungamente attese di energia alternativa, non inquinanti, non impattanti. E, invece, impattante, si è rivelato l’elemento più inaspettato: la pala in sé, o meglio le pale; da una, siamo arrivati nell’arco di un decennio appena, ai «parchi eolici», sterminate giungle di «pale e tralicci» con ovvie conseguenze sui «panorami», sui paesaggi, sugli ecosistemi. Scenari a noi abbastanza vicini: basta andare nel Subappennino ma anche nel Gargano (Lesina, Poggio Imperiale) e toccare con mano come un parco eolico possa avere indubbi impatti sulla qualità estetica del paesaggio in primo luogo.

È il prezzo da pagare perché una comunità risolva il problema energetico? O c’è dell’altro? Se è una scelta condivisa, come dovrebbe essere, nessun problema: un paese, una cittadina, una comunità rinuncia al piacere di un panorama, sacrifica un Po’ della sua identità (paesaggio) in cambio, però si vede ridurre i costi energetici, beneficia di maggiori servizi, ecc. ecc. Ma così non è.

I progetti si moltiplicano giorno per giorno; gli uffici regionali non sono in grado di arginare il fenomeno; l’istruttoria dei progetti, com’è noto, è di competenza delle regioni ma le pratiche sono così numerose che poi passano alle province. Occorrono adeguate valutazioni ambientali (Via, Relazioni d’Incidenza Ambientale, ecc.) ma per i progetti di pale eoliche queste nobili pratiche si sono banalizzate ulteriormente. La valutazione ambientale è di grande importanza ma le pale eoliche rientrano in quelle categorie di opere in cui è sufficiente il cosiddetto «screening ambientale», in pratica una sintetica o sommaria valutazione degli impatti; la fase istruttoria può poi prescrivere modifiche o richiedere la Via, procedura più complessa, attraverso la quale si esaminano con più rigore gli impatti del progetto.

Tutto si decide con una Conferenza di servizi (DL 387/03); la maggior parte delle volte si concede il nulla osta (l’approvazione del progetto) con uno screening ambientale. Nei casi in cui si applica la Via, le istruttorie difettano di esperti o competenti in materia (botanici, zoologici, paesaggistici, ecologici, ecc.) che sono invece indispensabili per una valutazione obiettiva del progetto.

Con queste premesse, le conseguenze ambientali delle pale eoliche erano prevedibili, tenendo conto soprattutto dei contesti ambientali interessati: aree agropastorali, ingovernate, facilmente interpretabili come «degradate», «povere», con piccoli comuni indebitati o in cerca di fondi, in pratica un substrato di «facili colonizzazioni».

La massiccia presenza di pale ha indubbiamente stravolto il paesaggio di vasti territori, quelli spesso più autentici i quali, e non è un caso, sono in realtà sempre gli stessi: aree interne, caratterizzate da una diffusa ruralità e «naturalità» (Monti Dauni e Gargano nel caso della Capitanata). In un paesaggio agropastorale una, due, o tre pale non «deturpano» affatto, o l’impatto è indubbiamente trascurabile o sostenibile, come non hanno impattato in Olanda i loro mulini a vento; il problema si crea quando le pale diventano vere e proprie «piantagioni».

Il substrato è fertile anche per i proprietari dei terreni, contadini che si vedono giorno per giorno erodere i loro redditi agricoli: basta privarsi di 300/400 mq del loro fondo per avere ritorni economici d’indubbia appetibilità, soprattutto nella prospettiva del nulla o di una fatica mal ripagata. Un insieme di ragioni, dunque, che innescano le «piantagioni di pale», con effetti anche vistosi su quelle identità di luoghi (Subappennino, Gargano) che aspettano da tempo di essere valorizzati con strategie più rispondenti alle loro vocazioni (turismo rurale, agriturismo, turismo culturale).

L’impatto non è relativo solo a quei pochi metri quadri (impatti diretti) ove s’impiantano le pale: bisogna costruire strade, cabine di trasformazione, elettrodotti che incidono su pascoli, suolo, vegetazione. Possiamo anche trascurare le poche decine di metri quadri di suolo, vegetazione che perdiamo; la letteratura ci dice, infatti, che i maggiori impatti si hanno sulle biocenosi faunistiche, in particolare uccelli. È stato ampiamente dimostrato un danno per collisione degli animali (chirotteri, rapaci e migratori) con parti della pala (rotore); più esposti sono i rapaci e i migratori.

L’impatto c’è anche sugli ecosistemi: la presenza di pale aumenta l’impatto antropico in luoghi ove è stato storicamente modesto con conseguenze sulla fauna in termini di presenze, nidificazione, alimentazione (funzionalità ecosistemica). La stessa frammentazione degli habitat, come impatto indiretto, non è poi trascurabile: valutando un raggio d’azione di almeno 500 m per ogni pala, bastano dieci pale per abbassare o annullare la naturalità (relazioni ecosistemiche) di un raggio di circa cinque chilometri.

È stato calcolato che sui Monti Dauni le pale esistenti al 2005 impattavano su 40mila ettari (graduale scomparsa di quasi tutte le coppie nidificanti di Nibbio reale). Si è ridotta in molti casi la velocità delle pale (velocità periferica) ma si è dovuto poi renderle più lunghe per cui alla fine il risultato non è cambiato poiché la velocità rimane sempre alta (240 km/h).

Se le pale eoliche diventano «piantagioni», l’impatto è inevitabile e non v’è soluzione che possa mitigarlo! Il prezzo da pagare, condivisibile, se queste nuove «industrie» creassero poi ricchezza, o realizzassero benefici diffusi nei territori interessati. Così non è stato, così non può essere se i presupposti sono ben altri, facilmente immaginabili.

Sulle nostre bollette troviamo voci di costo aggiuntivi per finanziare, «scrivono», la ricerca e la sperimentazione di fonti alternative ma che dai quali non può venire alcun beneficio collettivo, se le logiche sono altre: chi vuol vendere 100 di energia in Italia deve dimostrare di produrne 5 da fonte rinnovabile; dunque i 5 «puliti» servono a poter vendere i 95 inquinanti. Ancora più paradossale è che nonostante il crescere di piantagioni eoliche, fotovoltaiche, non si vede ancora nessuna riduzione di consumo di petrolio, che invece continua a crescere insieme all’anidride carbonica e all’effetto serra.

C’è dell’altro dunque! Un modello di produzione energetico centralizzato che non ha nessun obiettivo di creare ricchezza, benefici per le comunità locali. Diversamente le cose possono avere seguiti più d’interesse generale, ad esempio andare nella direzione di modelli energetici potremmo dire «locali», attraverso i quali ogni comunità, sfruttando semplicemente le proprie vocazioni (sole, vento, acqua) si costruisce il proprio impianto energetico, senza passare per il petrolio. Basta mettere i pannelli solari sui tetti degli edifici pubblici, su molte case private, una decina di pale eoliche, se la zona è ventosa, e la comunità ha realizzato la sua autonomia energetica. Il numero di pale o pannelli solari sarebbe sicuramente sostenibile in termini d’impatti e con immediate ricadute sulle comunità locali. Un facile modello che risponde a elementari logiche, ma non a quelle dei mercati, o delle leggi che «tamponano» la questione ambientale, solo per questo è utopico.

 

Nello Biscotti