L’attesa è il paradigma della nostra limitata vita. Da piccoli si attende di diventare grandi, poi di essere indipendenti e in alcuni casi di avere figli, poi i figli crescono e si attendono i nipoti e poi si continua ad attendere…
C’è stato chi attendeva il Messia, chi lo attende tutt’ora, chi attendeva l’uomo bianco che su una nave sarebbe tornato, e c’è chi attende gli Ufo.
Al paradigma dell’attesa fa da contraltare quello della partenza. Eppure soltanto da chi vive il presente e gode del suo stato, riceviamo un senso di pace e di saggezza. Dagli altri solo ansia e inquietudine.
Abbiamo perso i tempi della vita, bruciamo le nostre giornate pensando che il domani sarà diverso e soprattutto migliore. E ci perdiamo la bellezza dei tramonti o il turbinio di venti e nebbie in vallate austere.
Ora ci terrorizza anche il ticchettio della pioggia, ché se cade incessante finirà per danneggiare i manufatti che abbiamo frapposto fra la pioggia e i fiumi…
Il Natale è simbolo dell’attesa per i cristiani, e precede il nuovo anno. In questo periodo si affollano sui media i bilanci e i pronostici. Noi non conosciamo il futuro, se viviamo è per godere di altri giorni, di altra vita. Continuare a sentire i profumi del bosco e il canto degli uccelli. Siamo stanchi dell’aria che ci ammorba e avvelena, dei rumori a tutte le ore, della corsa fra lavoro, casa e vacanze…
Ecco, proviamo a frenare, a tendere l’orecchio anche alla pioggia che cade sul selciato, ad andare in periferia dove la campagna resiste e scoprire l’odore della terra bagnata. A chiamare un amico, o i nostri figli, e passeggiare così, senza dover comprare qualcosa, solo per ascoltare.
Scopriremmo una musica antica, quella della natura, così vicina alla vera vita.