Gatto: il miglior nemico della Natura, dopo l’uomo

1677
Tempo di lettura: 5 minuti

Il problema nasce dal momento che il numero di gatti immessi dall’uomo nei territori extraurbani cresce smisuratamente, a differenza delle popolazioni di specie selvatiche

Dolce ed affettuoso, un batuffolo di miagolii e fusa. Uno degli animali più interessanti di cui l’uomo sia stato capace di carpirne l’amicizia. Una coevoluzione che dura da secoli e che ha reso il più antropizzato dei felini un compagno inseparabile delle società umane, secondo solo al fedele cane. Eppure dietro quei baffi lunghi e quel muso investigatore si nasconde un imprendibile predatore dagli improvvisi agguati e fulminei salti. Un passo felpato che permette al gatto (Felis sylvestris e tutte le sue sottospecie), così come ai suoi parenti più stretti, leoni, pantere, leopardi, giaguari, etc. ed alla sua versione selvatica, di cacciare con estrema precisione.

Un istinto che può far danni

Ciò che rende questo simpatico animale domestico un temibile nemico per gli equilibri ecosistemici è il suo naturale, quanto indomabile, istinto alla predazione, che si scatena soprattutto ai danni di piccoli mammiferi (mustioli, topiragno, talpe, topi selvatici, arvicole, etc.), rettili (in particolare lucertole, ramarri e serpenti) ed uccelli (sia con la predazione diretta di uova e pulli nei nidi, sia con attacchi agli adulti). Il risultato di questa irrefrenabile caccia è un trofeo che questi animali portano al padrone in segno di riconoscenza. Non una ragione alimentare, dunque, quanto una necessità di sfogare un istinto e, dal punto di vista etologico, mantenere saldi i rapporti con il gruppo familiare e con il suo leader.

Un dono all’uomo che costa, invece, alla Natura un’inestimabile perdita in termini di biodiversità. Se i gatti introdotti in Australia hanno fatto razzia della fauna isolana e portato all’estinzione alcune specie di piccoli marsupiali, in Messico alla scomparsa di una lucertola endemica, nel Guadalupe a quella del picchio e così via, non se la passano di certo meglio gli animali selvatici italiani ed europei, in genere. Si stima che un solo gatto sia in grado di cacciare ed uccidere in un giorno un’intera nidiata di cardellini, due giovani serpenti cervoni ed almeno tre-quattro roditori. Per non parlare poi di lucertole e ramarri, che sembrano essere le loro prede preferite.

Da una recente indagine effettuata dal nostro gruppo di ricerca nei territori delle Murge di sud-est della Puglia nell’ambito di uno studio del Wwf sulla biodiversità dell’Ecoregione mediterranea, grazie a tecniche di fototrappolaggio con rilevamento ad infrarossi, è stato possibile evidenziare come il gatto domestico libero di circolare in aree naturali sia il principale competitore per le risorse trofiche di altre specie di predatori (volpi e faine, in particolare), limitandone notevolmente l’accesso ai territori di caccia e riducendo sostanzialmente il numero di prede, ed abbia un notevole impatto in termini di predazione a scopo non alimentare nei confronti di specie rare ed a rischio, come la Lucertola campestre, il Colubro leopardino, il Mustiolo, l’Arvicola di Savi, il Topo selvatico, il Cardellino, il Verzellino ed il Verdone, solo per citarne alcuni.

Più volte sorpreso dalla videocamera della fototrappola, il gatto domestico è apparso muoversi con agilità nel territorio, data la sua rinomata selvaticità che lo pone al confine tra l’animale sinantropico e quello puramente selvatico. Tale flessibilità comportamentale lo rende, però, una seria minaccia per gli equilibri delle specie e degli ecosistemi.

Una questione di numeri

D’altra parte, in molti potrebbero ribattere che non ce nulla di «innaturale» nel fatto che il gatto domestico predi altri animali, essendo quella la sua natura (d’altronde il suo cugino selvatico vive nel Paleartico da millenni). Il problema nasce dal momento che il numero di gatti immessi dall’uomo nei territori extraurbani cresce smisuratamente, a differenza delle popolazioni di specie selvatiche che, invece, restano in equilibrio all’interno del proprio habitat ed anzi, subiscono un declino a causa delle altre minacce umane. Tale sovrannumero di silenziosi piccoli felini nelle aree naturali crea uno sforzo di prelievo che rischia di mettere in ginocchio, come già avvenuto in passato, un gran numero di specie. Se si considera che la popolazione felina domestica si avvicina al numero di essere umani sulla terra e lo si moltiplica per il numero di vittime potenziali delle loro battute di caccia, si raggiungono numeri esorbitanti che destano serie preoccupazioni dal punto di vista biologico ed ecologico.

Viene spesso ignorato il pesante danno che questa specie può arrecare all’ambiente perché è più facile dare la colpa alla caccia, all’agricoltura, all’inquinamento che non al docile e sornione animaletto sul divano. Certo caccia, agricoltura intensiva ed inquinamento, oltre alla frammentazione degli habitat ed al cambio di uso del suolo hanno un fondamentale e decisivo ruolo nella distruzione degli ecosistemi, ma il tranquillo gatto domestico si trasforma, nell’ambiente naturale, nella più disinvolta ed impensabile minaccia alla biodiversità.

Il fenomeno ha assunto dimensioni preoccupanti da quando l’abitudine di liberare gatti domestici nelle campagne e nei territori extra-urbani è diventata prassi comune. La discreta autonomia dei gatti li rende animali ideali di cui disinteressarsi sparpagliandoli e destinandoli «alla natura». Di questo, purtroppo, si macchiano anche i più convinti ambientalisti ed i più accaniti animalisti che, nel tentativo di donare al gatto la meritata libertà, si rendono complici di una infinità di uccisioni di animali selvatici, col rischio di far diminuire in brevissimo tempo il numero di specie di determinate aree e causare un’inestimabile danno alla rete ecologica.

Si può ipotizzare, ad esempio che l’abitudine dei serpenti Cervoni (Elaphe quatuorlineata) di stazionare sui rami bassi degli alberi, di riprodursi in cataste di legno e la loro mole abbia contribuito all’incredibile declino, documentato dalla nostra ricerca, dovuto in buona parte alla predazione da parte di gatti liberati in zone di campagna.

Serve più informazione

Il fascino e la straordinaria bellezza di un animale come il gatto ed il profondo rispetto per ogni creatura vivente ci fa ben guardare dal proporre assurde e crude misure di «contenimento della popolazione», essendo queste ultime applicate su incolpevoli esseri viventi, messi al mondo, trasferiti e voluti dalla sprovveduta mano umana. Il pericolo, d’altronde, che la fauna selvatica possa seriamente essere compromessa dalla massiccia presenza di gatti nelle aree naturali è stato ampiamente documentato e richiede importanti interventi. Dapprima è necessaria una campagna di sensibilizzazione della popolazione (animalisti inclusi) che miri a far comprendere la gravità del problema al fine di ridurre la liberazione di gatti nelle aree rurali. Il secondo passo è quello di avviare una strategia di sterilizzazione su ampia scala che permetta di limitarne la riproduzione. Per ultimo è necessario adottare un piccolo accorgimento che permetterebbe di salvare molte vite «selvatiche»: basterebbe, cioè, mettere un piccolo collare con campanellino ad ogni gatto che si incontra. Tale apparentemente semplice stratagemma permette alla potenziale preda di avvertire il predatore con anticipo e garantisce una riduzione delle catture. Al nostro caro gatto, amabile emblema dell’ozio, un po’ di scampanellio non creerà, di certo, gran disturbo.

Ovviamente la miglior soluzione sarebbe quella di mantenere gli animali domestici, davvero domestici. Farli vivere, in altre parole, con noi e sotto un attenta sorveglianza quando sono fuori casa. Altrimenti si rischia di trasformare l’amore per gli animali, domestici, in una potente arma contro gli stessi animali, però selvatici.

Non c’è sentimentalismo che tenga, anche perché voler mettere i paraocchi ed ignorare i problemi che i nostri Fuffy, Oscar, Romeo, Micio, e chi più ne ha più ne metta, arrecano alla natura è come illudersi di salvare il panda dall’estinzione portandolo in uno zoo.

C’è un impellente bisogno di riconoscere l’impatto sulla natura delle azioni umane. Anche quando queste si manifestano per mezzo di un batuffolo di pelo che tutto sembra tranne che uno spietato divoratore di rondoni.