Il terremoto del Giappone ed il ruolo dell’uomo nel mondo

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Dietro una struttura mentale presuntuosa e saccente si nasconde un omino piccolo, infimo ed impotente. È quello stesso uomo che osserva l’immensa potenza della Natura, capace di sradicare ponti, abbattere case, distruggere barche e centrali nucleari.

Il terremoto del Giappone, nella sua immane tragedia per un popolo che storicamente sembra condannato a subire gravi attacchi «dall’alto», ci riporta a considerare il ruolo dell’uomo nel mondo. Basta un sussulto di una placca tettonica, uno dei migliaia al giorno, per sollevare onde alte anche 10 metri e riportare all’umiltà quell’essere chiamato uomo. Sembra paradossale che proprio la patria della tecnologia, dove la creazione di robot, di congegni elettronici sofisticati, di auto iperaccessoriate si affacciano sul mercato a ritmo incalzante, sia rimasta inerme dinanzi alla forza della natura.

Se lo tsunami natalizio in Indonesia colpiva un popolo privo di tecnologia, isolato dal mondo e non un simbolo della modernizzazione, quello del Giappone assume in «occidente» una vasta eco proprio perché colpisce una delle roccaforti del predominio tecnologico dell’uomo sulla natura. O almeno, della presunzione di possederlo.

La compostezza dei giapponesi dinanzi ad una simile catastrofe è uno straordinario esempio di autocontrollo, che contraddistingue la vita quotidiana di ogni nipponico così come i più tragici eventi. Ci sarebbe molto da imparare da questa tragedia e dal modo di affrontarla delle sue vittime. Ancora di più, però ci sarebbe da imparare dalla perdita di ogni potere di controllo sulla natura, dall’inutilità dei marchingegni tecnologici più sofisticati. Perché sebbene il livello di avanzamento nell’affrontare i terremoti abbia evitato al Giappone molte migliaia di vittime in più e l’utilizzo di alcune tecnologie antisismiche e di monitoraggio hanno permesso un certo grado di prevenzione, a nulla sono valsi gli sforzi umani nell’immaginare sino a quale potenza potesse arrivare quella scossa improvvisa. Mai nella storia dell’isola se ne era verificata una di 8,9 gradi Richter di magnitudo, quindi tutte le sofisticazioni della tecnologia erano state calibrate su un livello standard più basso.

Tutto questo ci insegna quanto sia difficile fare previsioni sui comportamenti caotici dei sistemi terrestri (come d’altronde ci confermano tutti i giorni le previsioni meteorologiche), quanto la nostra matematica, la nostra modellistica siano lontane dalla rete dinamica di infinite relazioni e feedback di cui è costituito ogni sistema naturale, quanto la nostra presunzione divina ci porti spesso a ricrederci nei momenti in cui la natura si manifesta in maniera inaspettata e, soprattutto, quanto le nostre certezze vengano messe in discussione ogni volta che tentiamo di imbrigliare il nostro pianeta nelle leggi della fisica.

Così accade che una centrale nucleare, modello da cui imparare sino a qualche settimana fa secondo la classe politica italiana fautrice del nucleare sicuro, esploda improvvisamente rilasciando nel giro di qualche ora particelle radioattive che contaminano, all’istante (casi accertati), tre persone su tre (cioè il 100% del pur piccolo campione) tra quelle sottoposte ad analisi.

Così la nostra certezza sulla sicurezza delle centrali la cancella la stessa natura. Un’onda di 10 metri che manda in aria tutta quella «sicura» tecnologia. E sarebbe anche potuta andare peggio, ma per dirlo bisognerà aspettare un analisi seria dei livelli di radioattività nel cono di ricaduta delle polveri intorno alla centrale.

Eppure, Paesi come l’Italia continuano la lunga marcia in favore del ritorno dell’atomo e sferrano la più ridicola delle battaglie contro le energie rinnovabili. Quando ancora non si conosce che fine abbiano fatto molti dei barili pieni di scorie processati nelle centrali in funzione nel Belpaese sino a qualche decennio fa (ed il Mediterraneo, la Somalia, la Calabria, la Puglia, Ilaria Alpi e tanti altri ne sanno certamente qualcosa…), si propone un grande piano di rilancio del nucleare sul modello francese, che invece ridiscute la chiusura di quelle già attive, e sui principi di sicurezza giapponese, che ora ammira con immensa costernazione quanto, in realtà, poco sicuri fossero quei dettagli tecnologici se confrontati con l’impeto dell’onda, con l’urto del terremoto.

Non è cambiato nulla, la storia non ci ha insegnato molto. In quella rete ecologica universale in cui siamo inseriti un solo elemento sembra non adattarsi al cambiamento delle dinamiche. Ed è l’uomo. Come dinanzi all’esplosione di un vulcano, che travolge gli esterrefatti cittadini di Pompei, immortalati per i posteri ad ammonirli di non costruire vicino ai vulcani; come davanti allo spettacolo impietoso di decine di persone travolte dall’onda di Banda Aceh e trascinate in mare laddove la foresta di mangrovie distrutta per lasciar posto agli allevamenti europei di gamberi, era stata distrutta; come di fronte al tanto offuscato disastro di Cernobyl, per il quale si è parlato addirittura di un favore fatto alla natura lasciandole lo spazio per prosperare in quei territori contaminati, dimenticando che anche piante ed animali sono esseri viventi che si ammalano sotto l’effetto delle radiazioni; così ci illudiamo, perché è questo che siamo, degli illusi, di poter disporre delle nostre conoscenze scientifiche e tecnologiche per poter soggiogare la Natura ed il mondo. Prima di essere puntualmente, e catastroficamente, smentiti.

Forse, con un po’ più di umiltà potremmo rivalutare il nostro ruolo nella grande rete di cui siamo parte, riconsiderarci un elemento indispensabile tanto quanto tutti gli altri elementi e pensare che, nonostante quel gran cervello che ci riconosciamo, sottostiamo alle ferree leggi naturali come tutti gli altri esseri viventi e non possiamo, né mai potremo, sfuggirne.

Forse, così, ritroveremo quel ruolo perso all’interno della rete, impareremo dal passato e non ci faremo beffe del Tutto, ma considerandoci Una Parte, una sola parte, capiremo di non essere soli. Ed allora, anche quando le nostre più sicure previsioni dovessero indirizzarci verso una strada pericolosa, come quella di determinare, più o meno grandi, effetti dei mutamenti climatici, più o meno grandi, stravolgimenti della temperatura planetaria, potremo essere umilmente consapevoli che basta un terremoto, un lieve brivido della Pianeta, per spostare l’asse terrestre di ben 15 centimetri, con la possibilità di mandare al macero anni di studi, rapporti, dossier, modelli e previsioni umane sull’andamento futuro del clima. Solo perché colei che studiamo ci ha fatto uno scherzo e si è inclinata su un lato del divano dell’universo. Non è poesia, ma è più scienza questa di quanta presuntuosamente se ne faccia tra le cattedre dell’estrema certezza, dell’infinita saccenza.

È più scienza considerare in maniera relativa tutto ciò che accade e comprendere che ogni minima azione di un qualunque elemento, uomo incluso, può creare sconvolgimenti impensabili all’intera rete ed all’intero sistema, che sedersi a tavolino per immaginare un futuro che un solo colpo di coda planetario manda all’aria. Allora sarebbe più onesto fare una scienza del presente, che ci permetta di agire, di comprendere oggi dal passato e liberarci dalla rigido diktat che non si possa fare scienza senza poter fare previsioni. Perché, mai come in quest’epoca che, ancora una volta un po’ presuntuosamente abbiamo definito Antropocene (come se non bastasse uno starnuto della Terra, o una biglia meteoritica lanciata da qualche distratto giocatore universale, ad eliminarci tutti), ci rendiamo conto che quelle che possono sembrarci le migliori previsioni della scienza o le più affidabili tecnologie, sono assoggettate ad infinite (ed indecidibili, e qui Godel ci illumina) variabili.

Pertanto, sono incontrollabili ed ampliamente indicative. Molto più inutili di quanto una scienza del presente che impara dal passato (e qui rientra in gioco l’evoluzionismo come principale scienza storica e non, come sin’ora considerata, una scienza impura perché impossibilitata a fare previsioni in quanto, altrimenti, si ammetterebbe l’esistenza di un disegno creazionistico), saprebbe dirci sul nostro mondo e sul ruolo che in esso ci troviamo, umilmente, a ricoprire.

Ci ricorderemo, allora, di essere solo un’infima parte di quell’inconcepibile ed imprevedibile Tutto.