Bisogna gestire le foreste o la natura è in grado di fare da sé? Un analisi dell’impatto umano sugli ecosistemi forestali da un punto di vista olistico
Una ghiandaia nasconde un duro seme di quercia. Lo fa per poter riesumare quella scorta in momenti di carestia. Inconsciamente fornisce un supporto alla rigenerazione della foresta. I semi non utilizzati potranno germogliare a molti metri di distanza diffondendo la specie ed ampliando la foresta. Nell’altro capo del mondo, un tucano trasporta la pesante capsula di un enorme albero tropicale. Si alimenta della sua polpa e come solo lui può fare grazie al suo becco robusto, disperde i semi racchiusi in quella corazza protettiva. Sia nelle foreste temperate sia in quelle tropicali i meccanismi che regolano il mantenimento dell’ecosistema sono complessi e perfetti. Ancora non siamo in grado di comprendere quei network, quelle reti di relazioni che permettono la coesistenza delle specie. Possiamo solo fare ipotesi o produrre modelli semplificati. Quel che è certo è che la foresta vive di vita propria. Contrariamente a quanto troppo spesso affermato dagli scienziati forestali, l’ecosistema forestale non ha alcun bisogno di quella gestione, seppur sostenibile, tanto decantata per giustificare il prelievo di risorse come legno e cellulosa. L’intervento umano non è necessario, anzi, è nella maggior parte dei casi dannoso.
L’intervento dell’uomo
Analizziamo dapprima l’ecosistema temperato per poi passare a quelli tropicali. Le aree boschive del Paleartico, che comprendono l’Europa e la Russia e quelle del Neartico, che comprende il Nord America, sono state profondamente alterate da continui cicli glaciali ed interglaciali che hanno modificato più volte gli areali delle specie e dagli interventi umani che nei secoli, a partire dal 1700, hanno sconvolto gli equilibri ecosistemici sino ad allora vigenti. Queste sono le principali cause per cui attualmente la maggior parte delle foreste temperate è costituita da poche specie arboree dominanti, strati arbustivi bassi ed un numero di specie animali, conseguentemente, inferiore se paragonato a quello delle foreste tropicali. Ovviamente le minori temperature e la minor umidità degli ambienti temperati non permetterebbero comunque quel rigoglio di biodiversità che troviamo ai tropici.
Però se le glaciazioni e lo sfruttamento umano avessero risparmiato le aree boschive del Nord del Mondo avremmo oggi foreste molto più complesse, con un maggior numero di specie e strati vegetazionali. Nei millenni successivi all’ultima glaciazione Olocenica le foreste temperate hanno potuto ristabilire i cicli successionali che permettono alle specie di svilupparsi e coesistere minimizzando il più possibile gli effetti della competizione.
Questi rapporti tra specie costituiscono le reti che strutturano gli ecosistemi forestali. Ciascun nodo di quest’invisibile rete di relazioni è formato da un individuo o una specie. Man mano che i rapporti tra vegetali si consolidano anche gli animali trovano spazio per la colonizzazione negli ambienti liberati dal ghiaccio e possono riprodursi e, nel lungo tempo, adattarsi a nuove nicchie ecologiche. Non assistere oggi a quest’esplosione di specie e trovare, invece, boschi di quercia, di pino o d’abete, in cui queste specie fanno da padrone su tutte le altre è un evidente effetto dello sconvolgimento della rete ecologica in formazione. I tagli indiscriminati per la costruzione di barche e ferrovie, l’utilizzo ancora diffuso della legna come materiale da combustione per il riscaldamento e per la costruzione dei mobili ha posto in serio rischio gli equilibri delle foreste temperate. Col passar del tempo e la diffusione di nuovi materiali (bruciatori a gas, materie plastiche, materiali edili in tufo e pietra, etc.) lo sfruttamento delle risorse legnose si è ridotto radicalmente.
L’intervento «sostenibile»
Negli ultimi decenni il trend di copertura forestale temperata è certamente in positivo. Sistemi di certificazione sull’uso delle risorse sembrano garantire la sostenibilità dei prodotti acquistati. In realtà ad un’analisi più approfondita ed affidata agli ecologi invece che ai dottori forestali, la cui formazione è spesso indirizzata verso un approccio gestionale della foresta, ha recentemente messo in evidenza che copertura maggiore non è sinonimo di maggior qualità. In Europa, ed in Italia particolarmente, ispettorati forestali ed uffici regionali continuano a rilasciare autorizzazioni per il taglio ceduo periodico dei boschi. Il rispetto del turno di taglio ed una serie di regolamenti creano l’illusione che la foresta non sia intaccata da simili interventi. In realtà la rimozione selettiva degli alberi durante i tagli crea notevoli danni all’intero ambiente.
I rapporti tra specie vegetali e le successioni che si instaurerebbero in un periodo ben più lungo dei 15-20 anni di turno vengono alterati producendo retroazioni positive che diminuiscono la biodiversità. Specie che beneficiano di ecosistemi intatti e vetusti, come i piccoli roditori che utilizzano gli alberi vecchi come rifugi, gli uccelli che nidificano nei tronchi cavi, molti coleotteri che depongono le uova nel legno marcescente, piante arbustive e rampicanti che possono crescere solo in luoghi indisturbati, rettili e mammiferi carnivori che vivono solo dove l’ambiente è ricco di prede, vengono allontanati, eliminati o, ancora peggio, estinti dai continui tagli.
Anche nei casi in cui i regolamenti sono rispettati alla perfezione ed il prelievo avviene a norma di legge, la foresta sembra soffrine. In uno studio realizzato di recente nei rari boschi di fragno della murgia pugliese, è stato messo in evidenza che specie xilofaghe come il Cerambice delle querce (Cerambix cerdo) sono completamente estinte nelle aree utilizzate per la ceduazione. Soltanto in aree esentate dal taglio da oltre 100 anni si può rinvenire la presenza di questi come di molti altri animali ed una maggior biodiversità vegetale.
Anche le foreste montane sottoposte ad utilizzazione periodica mostrano gli stessi preoccupanti sintomi. Le motivazioni addotte per giustificare le pratiche di taglio da parte del mondo forestale, accademici inclusi, spesso omettono una visione olistica ed ecologica del sistema foresta. La possibilità che dopo un breve termine gli alberi possano ricrescere è per loro sintomo di benessere e corretta gestione. In realtà la rarefazione della biodiversità e la perdita di servizi ecosistemici è proprio dovuta a questa «gestione sostenibile delle foreste».
Il bluff
Prevenire gli incendi, ridurre gli schianti, assestare il territorio sono solo alcune delle giustificazioni portate per nascondere semplicemente la realtà dei fatti: dalla foresta si vuol ricavare legno e questo deve esser fatto col minor danno possibile, soprattutto nei confronti dell’opinione pubblica. Sarebbe quindi molto più onesto ammettere che il legno serve, anche all’uomo del Terzo Millennio, e che tutta quella scienza, sviluppata dai forestali intorno al concetto di gestione, nulla centra con il benessere dell’ecosistema, ma è spesso un modo per illudersi di operare nel «rispetto del bosco».
Che poi il bosco sia un insieme di specie legate da intricate relazioni e scambi, questo poco importa. Tant’è che la maggior parte delle stime viene effettuata da satellite ove una piantagione, un bosco monospecifico o una foresta intatta e millenaria contano tutte alla stessa maniera nel conteggio delle superfici. Quindi le foreste temperate aumentano la loro superficie, ma non il loro valore ecologico. Un qualunque ambiente con soli 20 anni di tranquillità non può essere in grado di riallacciare tutte le maglie e riformare tutti i nodi della rete.
Anche le foreste tropicali sono messe, oggigiorno, in serio pericolo da interventi distruttivi. Quello che, ad esempio, l’Asian Paper and Pulp (App) pubblicizza in questi giorni sulle reti televisive e sui giornali nazionali come «impegno ambientale» declamando l’impegno profuso affinché l’Indonesia diventi un’importante area per la produzione di cellulosa, mentre vengono mostrate immagini di filari d’alberi di eucalipto pronti a diventar carta, troverà forse il favore di molti scienziati forestali che vedono nella foresta semplicemente un’insieme di alberi e nella gestione una misura necessaria «per il bene della foresta». Ma non trova sostegno negli ecologi che vedono complessi ecosistemi come quelli del Borneo e di Sumatra, formati da milioni di specie perfettamente integrati, lasciare il posto a file di alberi piantati, che visti dal satellite mostrano un tasso netto di deforestazione di molto inferiore a quello reale.
Le stime annuali della Fao sullo Stato delle Foreste mondiali tengono contro proprio del dato di copertura satellitare e non discriminano con facilità tra monocoltura e foresta vergine. È facile così mal interpretare i trend di deforestazione o di impatto sugli ecosistemi primari.
In Africa, dove ad esempio non viene praticato il taglio a raso ma una sorta di gestione responsabile con tagli selettivi come avviene in Europa, si è sottovalutato l’impressionante danno di questo tipo di pratiche sull’ambiente vergine. Queste foreste perdono buona parte della loro stabilità e recenti ricerche evidenziano che gli effetti nel lungo termine non sono di recupero, ma addirittura di maggior squilibrio.
Marchi come l’Fsc dovrebbero considerare i reali impatti sull’ecosistema piuttosto che occuparsi soltanto delle condizioni di trasporto, del numero di alberi abbattuti e delle condizioni sociali delle popolazioni locali. Ad oggi nessun marchio né alcuna rassicurazione sulla gestione sostenibile delle risorse forestali può davvero essere considerato valido. Il taglio, comunque venga fatto, produce gravi modifiche all’intero sistema. Ciò che abbiamo realizzato nelle foreste temperate, con il beneplacito dei dottori forestali e dei gruppi di certificazione lo stiamo trasferendo nelle ultime aree vergini del pianeta, danneggiandole profondamente.
La natura è ben in grado di gestirsi da sé e le foreste beneficerebbero della totale assenza di interventi umani. Se poi vogliamo giustificare la necessità e la sostenibilità dell’utilizzo dei materiali legnosi nella vita quotidiana, potremmo raggiungere un compromesso lasciando in pace per i prossimi secoli le aree forestali, il cui prelievo di risorse si è rivelato fallimentare e dannoso nel tempo, e destinare aree di agricoltura abbandonate alla piantumazione di alberi specificamente destinati al taglio. Questi diventerebbero assimilatori netti di anidride carbonica, con benefici per il ciclo del carbonio ed eviterebbero la costante alterazione degli equilibri forestali. Allo stesso tempo marchi come l’Fsc dovrebbero smettere di certificare il legno proveniente dalle foreste tropicali, poiché anche dalle pratiche più sostenibili deriva sempre un danno collaterale irrimediabile (danneggiamento delle altre specie, bracconaggio, apertura di strade, modifica della struttura forestale, abbassamento dell’altezza media della foresta, sviluppo di infestanti e disponibilità di nicchie per le specie aliene).
Senza dimenticare che un albero è sia un essere vivente, probabilmente con sensazioni ed emozioni, sia uno dei tanti componenti di una foresta, dottori forestali e scienziati del management dovrebbero riacquisire quell’umiltà e riconoscere la loro ignoranza, in quanto uomini, nei confronti di ambienti così complessi, variegati e meravigliosi come le foreste, da cui non si può togliere qualche elemento e sperare di non aver creato danni, come si toglie qualche rotella in più da un orologio sperando che ancora segni l’ora. La natura non ha bisogno di presuntuosi manager, semmai di umili operai al suo servizio.