Quelle orme… un tesoro abbandonato

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A dieci anni dalla scoperta nulla è stato fatto. Sos lanciato da Sigea, Italia Nostra e Archeoclub. La zona per vastità della paleo superficie, per numero e diversità di impronte, riveste accertata e notevole importanza scientifica e culturale a livello internazionale. E la presenza di altre impronte in siti come il Gargano, Molfetta, Giovinazzo, fanno della Puglia un’area di primario interesse

Gli estesi affioramenti di rocce calcaree, formatisi a seguito di un inesorabile impilarsi di strati di fango carbonatico nelle passate ere geologiche e divenuti, nel tempo, tenaci rocce in grado di intrappolare e conservare tracce dirette ed indirette della vita contemporanea alla loro formazione, costituiscono l’ossatura di tre grandi regioni della Puglia: il Gargano, le Murge e il Salento.

Per comprendere i fenomeni che si sono verificati nelle lontane ere passate dobbiamo fare un grande sforzo di fantasia ed abbandonare la cognizione spazio-temporale che caratterizza la nostra vita quotidiana o gli studi di storia classica, per approcciarci ad una dimensione geologica dove i nostri secondi diventano migliaia di anni.

Le terre emerse che oggi calpestiamo ed i mari che solchiamo sono il frutto di un’evoluzione lenta ed inesorabile che parte da tempi molto remoti, quando la stessa comparsa dell’ominide, nostro progenitore, era lontana milioni di anni. Di conseguenza, all’epoca in cui vissero gli esseri terrestri che hanno lasciato le tracce del loro transito nel giacimento paleontologico che oggi ricade nel territorio amministrativo di Altamura (Bari), la configurazione del globo terrestre era molto differente da quella attuale.

I fanghi carbonatici, destinati a diventare roccia, si accumulavano in un mare caldo e poco profondo, nell’ambito di un arco di tempo compreso tra circa 165 e 65 milioni di anni fa, durante il Mesozoico, che rappresenta appunto l’era dei dinosauri.

La pista dei dinosauri

Quando un giorno del 1999, al calar del sole, furono notate, per puro caso, migliaia di piccole depressioni di dimensioni decimetriche, allineate secondo vari direttrici, sulla superficie bianca del fondo di una cava in rocce calcaree sita nei pressi di Altamura, subito si comprese che ci si era imbattuti in uno spettacolare ritrovamento di orme di dinosauri. Certo non poteva essere altrimenti se si considera che, secondo la letteratura geologica, i calcari di quella cava si sono formati nel Cretaceo superiore, circa 85 milioni di anni fa, e che gli unici esseri viventi che all’epoca potevano lasciare simili piste nel sedimento fangoso calcareo che si andava formando erano i grandi rettili del Mesozoico: i dinosauri.

In una regione come la Puglia, dove la maggior parte del substrato roccioso affiorante è costituito da rocce carbonatiche formatesi nell’ampio periodo di esistenza dei dinosauri, la scoperta poteva ritenersi scontata, tuttavia non era propriamente così: la maggior parte dei ricercatori a quell’epoca riteneva che nel Mesozoico le aree oggetto di questo spettacolare ritrovamento fossero rappresentate da un arcipelago di isolette lontane dalla terra ferma e mai collegate ad essa. Tale condizione avrebbe impedito scambi di fauna con il continente individuando un contesto di alimentazione poco probabile per lo sviluppo di esseri viventi caratterizzati da grandi esigenze di cibo.

Ciò nonostante era stata fatta una sensazionale scoperta, facilitata proprio dall’effetto della luce al tramonto (pari a quello che si ottiene anche all’alba), quando il sole, basso sull’orizzonte, esalta le ombre come, in questo caso specifico, quelle di numerose depressioni allineate su una estesa superficie piana. Tuttavia, nessuno poteva ancora immaginare la straordinarietà del vasto giacimento paleontologico di Altamura, sia per quantità sia per qualità della conservazione delle orme.

Il ritrovamento di orme di esseri viventi riconducibili al passato è tanto più straordinario quanto più quegli esseri appartengono ad un passato molto lontano. Dal punto di vista scientifico il ritrovamento di un giacimento paleontologico di orme è una grande scoperta poiché, dall’analisi delle piste, si può risalire ad alcuni comportamenti in vita degli esseri cui appartengono difficilmente desumibili dallo studio dei resti fossili dello scheletro.

Il rinvenimento di un giacimento paleontologico di orme è frutto della combinazione fortuita di più fattori che possono schematicamente essere ricondotti ad almeno tre elementi o situazioni contingenti imprescindibili: sussistenza di condizioni favorevoli alla formazione delle orme; stato e grado di conservazione delle orme; sviluppo di condizioni favorevoli al ritrovamento delle orme.

Per comprendere più a fondo l’eccezionalità e la casualità dei ritrovamenti di orme, proviamo ad esplicitare meglio quali sono i processi indispensabili per la formazione e la successiva venuta a giorno di un giacimento di impronte fossili.

Cosa raccontano le orme

Il primo fattore imprescindibile per la formazione di una o più orme deriva dalla possibilità che l’essere vivente, durante i suo spostamenti, si trovi a camminare su uno strato di fango o di sabbia molto fine e soffice, tanto da poter essere impresso dagli arti che calpestano il suolo con un solco più o meno profondo; affinché le impronte così generate possano conservarsi nel tempo è, tuttavia, indispensabile che questo strato di fango, che diverrà poi roccia, venga rapidamente coperto da altro sedimento, evitando che gli agenti esogeni, quali il vento o lo scorrimento di acque in superficie, sia in forma concentrata (come nel caso dei fiumi) che diffusa (come nel caso di ruscellamento superficiale di acque meteoriche o di invasioni sul continente di acque marine), vadano a cancellare ogni traccia.

Gli effetti abrasivi del moto ondoso sulla spiaggia sono in grado di cancellare rapidamente ed implacabilmente ogni segno del passaggio di un essere vivente: semplice come veder scomparire i propri passi camminando sul bagnasciuga in riva al mare. Ma la rapida copertura delle impronte, sebbene imprescindibile, non rappresenta, di per sé, una condizione sufficiente alla conservazione delle orme nel tempo. Gli strati che conservano sulla loro superficie le impronte, sigillate da altro fango o sabbia fine in rapida deposizione, inizieranno, infatti, il lento processo di diagenesi che li trasformerà in strati di roccia, al cui interno resteranno preservate le tracce ivi impresse dagli esseri viventi nel periodo della loro formazione. Ciò nonostante, completata la fase di formazione, quegli stessi strati di roccia potrebbero essere interessati da processi di erosione naturale o da attività antropiche in grado di distruggere, in tutto o in parte, il carico di informazioni paleontologiche in essi contenuto.

Ai fini del ritrovamento delle orme è perciò necessario che le superfici di questi particolari strati di roccia, con il loro prezioso carico di informazioni, possano venire a giorno senza essere distrutte, auspicandosi che non rimangano, invece, intrappolate nella pila di strati che costituiscono l’ossatura geologica della superficie terrestre o che non si trovino al di sotto del livello del mare coperte da chi sa quanti sedimenti.

La riesumazione di questo genere di superfici, del tutto casuale, può avvenire o per ragioni naturali, quali l’erosione di un corso d’acqua o del mare lungo la sua linea di riva, o ad opera dell’uomo, durante scavi in roccia realizzati per vari motivi. A questo punto, una volta esposte nuovamente agli agenti esogeni ed alle più disparate azioni antropiche, la probabilità di conservazione delle orme dipenderà ancora una volta dal caso, ovvero dalla possibilità che le stesse vengano rinvenute, incidentalmente o perché ricercate sistematicamente, in tempi piuttosto brevi, e dunque protette da qualunque fattore esterno che sia in grado di distruggere queste fragili testimonianze della storia antica del nostro pianeta.

Per la combinazione imprevedibile delle tante condizioni sopra accennate, il ritrovamento delle orme di dinosauro avvenuto nel 1999 sul fondo di un cava dedicata alla produzione di inerti di rocce calcaree ubicata nel territorio comunale di Altamura, in località Pontrelli, a ridosso della strada che collega Altamura con Santeramo in Colle, destò un enorme interesse sia nel mondo accademico sia in quello culturale e sociale, annunciando un cambiamento importante nella ricostruzione dell’evoluzione geologica di quella stessa area durante l’era Mesozoica. Si ipotizzò, infatti, che doveva necessariamente sussistere la possibilità, attraverso arcipelagi di isole e penisole, di un collegamento che permettesse ai grandi rettili di passare dalla terra ferma di Gondwana al continente di Laurasia sito a Nord.

L’attenzione per questa sensazionale scoperta paleontologica riecheggiò anche nel settore turistico-economico, facendo sognare molti imprenditori sulla potenziale organizzazione di strutture e servizi idonei ad accogliere migliaia di visitatori all’anno, che avrebbero potuto, fra l’altro, cogliere l’occasione di allungare il proprio soggiorno per trascorrere qualche giorno tra le meraviglie naturalistiche della Murgia bradanica (come il pulo di Altamura e il pulicchio di Gravina) e le sue città storiche (quali la stessa Altamura, Gravina in Puglia o la attraente Matera).

A distanza di tanti anni dall’eccezionale ritrovamento abbiamo solo pochi atti, tra cui ricordiamo il decreto di vincolo archeologico sul sito di Altamura (D.M. 24/11/2000, ministro per i Beni e le Attività culturali) e l’inserimento dell’area nel Parco dell’Alta Murgia, finalizzati al tentativo nobile della pura preservazione del sito. Nel frattempo i ritrovamenti di orme di dinosauri in Puglia si sono moltiplicati, e in alcuni casi è possibile individuare anche esempi di virtuosa tutela sostenuta da encomiabili principi di valorizzazione, ma nessun altro sito arriva all’eccezionalità del parco paleontologico di Altamura che non è, invece, valorizzato e tutelato in maniera adeguata.

Un bene abbandonato

Ad oggi, purtroppo, il rischio che le orma vengano rovinate dagli agenti atmosferici non è solo una probabilità ma una certezza. Sulle orme, cui è stato rimosso il tappo di protezione naturale al fine di effettuare gli studi necessari alla classificazione delle stesse, si registrano già i primi segni di rottura dei bordi e di colonizzazione da parte di piante spontanee che, allargando le fratture della roccia con le loro radici, ne determinano la rottura.

Pertanto, tre Associazioni riconosciute dal ministero dell’Ambiente come associazioni di protezione ambientale (Sigea, Italia Nostra, Archeoclub) impegnate nella conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico della nostra Regione, hanno lanciato l’allarme sul degrado del sito, chiedendo alle Autorità ed agli Enti coinvolti a vario titolo una sorta di concertazione per individuare celermente le forme e le azioni necessarie, in primo luogo, ad evitare che il degrado del sito distrugga le incredibili testimonianze rinvenute, e a garantire, nel lungo termine, l’interesse di una collettività, che non riguarda solo la popolazione della Regione Puglia, in quanto la cava dei dinosauri di Altamura è patrimonio di tutti, al di là di qualunque confine amministrativo.

Di recente le associazioni hanno trasmesso una missiva ai responsabili locali, regionali e nazionali avente ad oggetto «Impronte di dinosauri Loc. Pontrelli, Altamura. Degrado del sito».

Nella nota si sottolinea che «il sito con impronte di dinosauri di Altamura per vastità della paleo superficie, per numero e diversità di impronte, riveste accertata e notevole importanza scientifica e culturale a livello internazionale.

«Il ritrovamento di impronte di dinosauro anche in altri siti pugliesi (Gargano, Molfetta, Giovinazzo, etc.), configura la regione Puglia quale area di interesse internazionale per gli aspetti scientifico-paleontologici.

«A circa 11 anni dall’emanazione del decreto di vincolo archeologico sul sito di Altamura (D.M. 24/11/2000, ministro per i Beni e le attività culturali), l’area appare fortemente degradata e in pessimo stato di conservazione, anche in relazione alla continua esposizione agli agenti atmosferici delle impronte.

«Appare, inoltre, del tutto inadeguata e insufficiente la recinzione dell’area posta a tutela di ingressi non autorizzati.

«Alla luce di quanto sinteticamente rappresentato, le associazioni, nell’esprimere le proprie preoccupazioni in merito alla conservazione ed alla tutela del sito di Altamura, chiedono quali misure siano state individuate per la salvaguardia della paleosuperficie dal degrado e quali iniziative si intendono perseguire ai fini della reale tutela del bene oggetto di vincolo archeologico ai sensi dell’art. 18 D. Lgs. n.42/2004, anche in relazione all’importanza e al carattere di interesse collettivo che contraddistingue il sito di Altamura».

Giacimenti paleontologici simili a quello di Altamura ma meno spettacolari, sia per quantità e varietà di orme sia per grado di conservazione delle stesse, sono in grado di attrarre, nell’ambito del turismo scolastico, naturalistico e culturale, centinai di miglia di visitatori all’anno con una evidente ricaduta economica. Alcuni esempi concreti sono rinvenibili in Spagna.

In Puglia, tuttavia, sembra che anche le potenzialità economiche di valorizzazione del sito di Altamura non interessino a nessuno; sembra che lo scetticismo sintetizzato nell’esclamazione dialettale di un cavatore all’epoca del ritrovamento, tramandata poi a mo’ di aneddoto e che tradotta dovrebbe suonare così: «…ho lavorato tanti anni in quella cava ma il Minotauro non l’ho mai visto passare…», abbia avvolto e condizionato gli amministratori locali e i decisori regionali e nazionali. Per tutelare un bene è necessario farlo conoscere. La valorizzazione del bene specifico attraverso la diffusione della cultura del «conoscere e conoscere bene» fa da traino per tutto il comparto dei beni naturalistici.

A distanza di oltre dieci anni dal ritrovamento, ci si chiede come mai le Pubbliche Amministrazioni coinvolte nella tutela e valorizzazione del giacimento paleontologico di Altamura, visto l’evidente interesse pubblico ed il progressivo danneggiamento del bene, non abbiano avviato le procedure di esproprio per pubblica utilità (art.834 Codice Civile) previste dalla nostra Costituzione (Art. 43). Attraverso tale procedura la Pubblica amministrazione può, con un provvedimento, acquisire o far acquisire ad un altro soggetto, per esigenze di interesse pubblico, la proprietà o altro diritto reale su di un bene, indipendentemente dalla volontà del suo proprietario, previo pagamento di un indennizzo. A Ragion veduta, si parla di indennizzo e non di risarcimento: il bene espropriato passa in capo alla Pubblica amministrazione nel perseguimento di un interesse comune, che sarà gestito della collettività organizzata (enti locali, ente parco, associazioni, consorzi, società private, ecc.). Speriamo che, con l’interessamento della società civile, le tante ombre sulle orme di Altamura possano rimanere unicamente quelle che ne hanno permesso il ritrovamento, e che venga rimosso rapidamente ogni ostacolo alla tutela del sito con l’avvio immediato di azioni concrete atte a promuovere il territorio, con evidenti ed auspicabili ricadute occupazionali ed economiche.