Quando l’ecologia era «la scienza delle contesse»

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Già alla fine del XVIII secolo Malthus (1766-1834) aveva riconosciuto che un aumento della popolazione avrebbe portato a una insufficiente disponibilità di cibo: essendo un economista borghese Malthus suggeriva come unica soluzione delle azioni per rallentare l’aumento della popolazione dei poveri (che fanno più figli) tagliando i sussidi di povertà e con una adeguata «educazione».

Gli studiosi del secolo scorso avevano riconosciuto che la fertilità dei suoli diminuiva con l’aumentare della produzione agricola. Justus von Liebig (1803-1873) aveva descritto le leggi della nutrizione vegetale e aveva spiegato le ragioni per cui il suolo si impoverisce se coltivato intensamente. Il capitalismo seppe subito dare una risposta mettendosi a sfruttare i concimi cileni, poi mettendosi a fabbricare concimi dai fosfati africani, poi mettendosi a fabbricare concimi sintetici.

Sempre nella metà del 1800 Darwin (1809-1882) intraprendeva il viaggio intorno al mondo sulla nave Beagle (1831-1836) e, al suo ritorno, nel 1859, ha spiegato le leggi dell’evoluzione e le modificazioni che le specie subiscono in relazione all’ambiente circostante. Nel 1866 Ernst Haeckel (1834-1919), il grande divulgatore del pensiero di Darwin, in una delle sue «conferenze» suggeriva la necessità di studiare gli scambi di materia e di energia fra gli esseri viventi e il mondo circostante e assegnava alla nuova disciplina il nome di «ecologia», in quanto «economia della natura».

Per decenni l’ecologia si è sviluppata ed è rimasta chiusa nei laboratori scientifici influenzando solo limitatamente il pensiero e l’agire politico. Anche se, già nella metà del secolo scorso, è nato, in risposta ad una domanda sollecitata in parte dai naturalisti e in parte da una nuova attenzione civile, un movimento per la conservazione della natura e sono stati creati i primi parchi nazionali.

Peraltro, a differenza dell’attuale effimera attenzione per le scoperte scientifiche, il dibattito sulla rivoluzione delle conoscenze biologiche nell’Ottocento si diffondeva rapidamente non solo fra gli studiosi, ma a livello delle masse popolari e sollecitava una analisi delle radici della violenza nei confronti della natura, riconosciute insite nel sistema capitalistico borghese e consumistico. Si possono ricordare gli scritti degli anarchici, come Henry Thoreau (1817-1862) e Piotr Kropotkin (1842-1922), le battaglie socialiste per migliorare le condizioni di vita e l’ambiente nelle città e nelle fabbriche.

Per esempio, il fascicolo del 15 giugno 1882 del giornale operaio e socialista «La Plebe» contiene un lungo necrologio di Darwin con una interessante interpretazione «politica» del suo pensiero: «La solidarietà, e il lavoro solidale, sono ciò che protegge le specie nella lotta che esse hanno a sostenere contro le forze ostili della natura per mantenere la loro esistenza… [secondo le ricerche di Darwin] il miglior modo d’organizzazione d’una società animale è quella del comunismo anarchico».

Lo stesso problema della scarsità delle risorse naturali e del loro possibile esaurimento futuro era ben presente agli studiosi del secolo scorso. L’economista Stanley Jevons aveva scritto un esemplare studio a questo proposito, anche se le sue previsioni si erano poi rivelate sbagliate, avvertendo che lo sfruttamento delle miniere di carbone avrebbe portato ad un loro impoverimento e poi esaurimento.

Davanti a tale avvertimento il capitalismo mobilitò i suoi scienziati e scoprì le riserve di petrolio, poi di gas naturale; dapprima gli Stati uniti hanno realizzato il loro avanzato capitalismo con le proprie risorse petrolifere nazionali; poi, quando queste hanno cominciato ad esaurirsi, hanno cominciato a importare petrolio, con adatte operazioni di imperialismo in Persia, nella penisola arabica, in Africa, nell’America Latina.

L’ecologia scienza borghese?

Un vero e proprio «movimento» di contestazione ecologica in senso moderno è cominciato negli anni 50 di questo secolo con la protesta contro le esplosioni delle bombe atomiche nell’atmosfera; si sono così intrecciate la domanda di pace e disarmo con quella di un ambiente non contaminato dai sottoprodotti radioattivi delle attività nucleari, e poi dai pesticidi, e poi dagli agenti tossici industriali. Il movimento, che ha cercato nell’ecologia un nuovo modo di pensare, è cresciuto nel corso degli anni Sessanta, sull’onda della contestazione operaia e giovanile e della protesta contro la guerra nel Vietnam. Il 1970 fu proclamato anno europeo della conservazione della natura; il 22 aprile 1970 fu proclamato in tutto il mondo «giornata della Terra».

La contestazione ecologica, anche nei suoi aspetti anarco-individualistici, aveva una matrice borghese, come del resto era nata in ambiente borghese la protesta contro le condizioni di lavoro e lo stesso movimento socialista. In Italia il movimento di contestazione è stato sostenuto da gruppi di intellettuali, insegnanti, studenti, borghesi, anche se di matrice radical-socialista. È questo il tessuto culturale in cui era nata, nella metà degli anni Cinquanta, Italia Nostra, la prima associazione per la difesa del patrimonio storico, artistico e naturale del paese. Borghese era la matrice della proposta di porre dei «limiti alla crescita», formulata dal Club di Roma agli inizi degli anni Settanta del Novecento.

Questa situazione ha fatto sì che il movimento di contestazione di estrema sinistra, in Italia e altrove, abbia guardato con sospetto all’ecologia che alcuni chiamarono «la scienza delle contesse».

Sarebbe utile rileggere gli scritti dell’estrema sinistra degli anni Sessanta per ritrovare questa posizione che del resto è ben interpretata dal celebre libro di Dario Paccino, «L’imbroglio ecologico», del 1972. Sostanzialmente la tesi era che l’ecologia era un ennesimo imbroglio architettato dal capitale per polarizzare l’attenzione verso la salvezza della «natura» dimenticando che l’«animale operaio» è esposto, ben più degli uccelli, a violenza e pericolo di estinzione. Questa critica era in parte ingenerosa: l’ecologia e la contestazione ecologica avrebbero potuto offrire (e hanno anche offerto) l’occasione per riconoscere che le radici della violenza contro la natura e l’ambiente andavano cercate nella proprietà privata, nelle leggi del massimo profitto, nelle ragioni e regole della società capitalistica. Virginio Bettini, nel 1970, aveva scritto, nel n. 1 della rivista «Natura e Società», che «l’ecologia è rossa».

Il capitalismo si appropria dell’ecologia

Ben presto il capitalismo ha elaborato i propri anticorpi alla contestazione ecologica degli anni Sessanta e ha avviato la protesta nell’alveo della propria logica: ben vengano le associazioni ambientaliste che spiegano (a noi capitalisti) come correggere il nostro comportamento senza toccare la prima legge del capitalismo.

Volete merci ecologiche? ecco che siamo pronti a produrle; volete acque pulite? ecco che il capitalismo vi offre depuratori e inceneritori. Molti «ambientalisti», soprattutto quelli del filone tecnocratico, detto «ambientalismo scientifico», sono stati tutti contenti, senza rendersi conto che ogni soluzione proposta dal sistema capitalistico non solo non risolveva il problema, ma spostava l’inquinamento dai fiumi, ai fanghi immessi nel suolo; dalle discariche, alle diossine prodotte dagli inceneritori; dall’inquinamento del traffico alle montagne di rottami di automobili; dai paesi industrializzati al Sud del mondo.

Ci troviamo oggi di fronte a due possibilità: la prima consiste nell’accettare o considerare buona e comunque correggibile la società capitalistica e godere senza troppi pensieri dei suoi benefici merceologici; la seconda è cercare di analizzare che tali beni merceologici non sono beni fondamentali, ma beni il cui desiderio è indotto con arti raffinate, addirittura a livello globale.

La globalizzazione non consiste nella circolazione delle merci e del lavoro, ma nella universalizzazione dei bisogni indotti e nella moltiplicazione dell’asservimento, globale, agli stessi bisogni e alle stesse merci. La gioia con cui sono stati salutati i negozi McDonald sulla Piazza Rossa o a Pechino, in Corea o a Cuba, come a Stoccolma o a Roma, dimostra come il capitalismo svolga in maniera perfetta la sua funzione di asservimento planetario degli umani e della natura.

La seconda soluzione consiste nel cominciare a pensare che questo non è il migliore dei mondi: che i bisogni merceologici indotti mortificano e annullano i veri bisogni umani: il bisogno di salute e di comunicare, di conoscere e di avere acqua e cibo di buona qualità; il bisogno di abitare e di lavorare; il bisogno di sicurezza sul lavoro.

Molti di questi bisogni non richiedono merci o richiedono meno merci e meno beni materiali o merci e beni diversi dagli attuali; altri, come la ricerca del silenzio, della capacità di guardare il cielo, l’amore e la dignità, sono addirittura sovversivi perché non richiedono merci.

Il fatto curioso è che i problemi che sto qui elencando non sono nuovi, ma rappresentano la base dell’analisi della società fatta già nel secolo scorso da anarco-socialisti come Tolstoi, Kropotkin o Thoreau (già ricordati), da socialisti come Marx, Engels o Veblen.

Tutti questi autori, i cui scritti sono stati lentamente nascosti, ridicolizzati e poi dimenticati, descrivono con grande intuito i caratteri della società capitalistica, così come si presenta ancora oggi, e suggeriscono i rimedi. Ancora più curioso è il fatto che, dopo una breve fiammata anarco-comunista negli anni Sessanta, l’ambientalismo borghese ha saldamente rifiutato il socialismo e il comunismo come soluzioni. Ciò è stato dovuto alla cattiva gestione del socialismo fatta nei paesi comunisti, nell’Urss e nei suoi satelliti europei, ma anche in Cina e nei paesi comunisti del sud-est asiatico, per cui, come dimostra il successo editoriale de «Il libro nero del comunismo», è ora facile alle forze borghesi identificare il comunismo con le repressioni e nessuna analisi viene fatta di come sono stati trattati i problemi dell’ambiente e della natura nei paesi comunisti nel corso di quasi un secolo.

Negli anni Settanta le prime associazioni ambientaliste borghesi con grande cura hanno ridicolizzato Marx ed Engels accusandoli di essere «industrialisti», di non aver capito l’ecologia. All’infuori di poche voci (ho già citato il libro di Dario Paccino) l’analisi marxiana della società capitalistica è stata rifiutata o accantonata. Fino ai trionfali giorni di oggi, in cui gli scritti dei padri del marxismo sono stati sepolti e perfino molti giovani militanti non li hanno mai letti.

In questa breve presentazione voglio sostenere che non solo i rapporti fra gli esseri umani e le risorse naturali erano stati ben presenti in Marx ed Engels, ma che essi avevano anticipato e descritto il meccanismo con cui il capitalismo aveva e avrebbe asservito all’universo dei consumi tutti i popoli e tutta la natura.

E inoltre che l’analisi del pensiero marxiano mostra che una soluzione dei rapporti fra esseri umani, e degli esseri umani con le risorse scarse dell’ambiente, può essere cercata soltanto in una soluzione comunista dei rapporti di proprietà dei beni, in una pianificazione delle merci, in una più equa distribuzione dei beni materiali fra i diversi popoli e in un rigetto dell’imperialismo come strumento per approvvigionarsi dei mezzi fisici con cui soddisfare i bisogni materiali degli abitanti di ciascun paese.

Questo breve contributo si può pensare come una anticipazione di un capitolo di un possibile futuro «Libro nero del capitalismo» in grado di illustrare che, fra i crimini del capitalismo, i reati contro le risorse naturali, contro l’ambiente e contro i lavoratori addetti alla produzione delle merci, hanno un ruolo importante. I pericoli di una analisi «di sinistra» dell’ecologia, del resto, furono capiti subito dal potere economico capitalista, ben conscio che le proposte di cambiamento avanzate dal «movimento ecologico» (preferisco questo aggettivo a quello di ecologista o ambientalista o verde), avrebbero comportato mutamenti nei modi di produzione e nei modelli di consumo, avrebbero richiesto nuovi processi, nuovi depuratori, e quindi costi per le imprese, maggiori vincoli all’uso del territorio e quindi minori profitti.

E il potere economico non fece fatica, come aveva sempre fatto, a trovare, grazie al ricatto occupazionale, la solidarietà dei lavoratori: se si fosse dato retta alle ubbie degli «ecologisti» le imprese avrebbero dovuto licenziare gli operai, ci sarebbe stata una ondata di miseria. L’occupazione, fu chiaramente spiegato, avrebbe potuto essere assicurata soltanto dall’espansione della produzione e dei consumi, poco contava se accompagnati da disastri ambientali che potevano stare a cuore a chi aveva già lavoro e pancia piena.

In questa sua campagna il potere economico ebbe il sostegno e la complicità di numerosi «scienziati», degni nipotini di quel dottor Andrew Ure (1778-1857), ricordato con ironia da Marx e da Engels, che nel suo libro «La filosofia delle manifatture» (1835) contestava le proposte di riduzione del lavoro dei ragazzi, dimostrando «scientificamente» che i bambini che lavoravano dodici ore al giorno nelle filande stavano meglio di salute ed erano più alti di statura dei loro ragazzacci coetanei che «perdevano tempo» a giocare e a non far nulla!

Alla freddezza della sinistra e dei sindacati nei confronti dell’«ecologia», considerata un lusso borghese, alcuni, nelle frazioni moderate delle associazioni ambientaliste, replicarono che non c’era da meravigliarsi di questo attacco da sinistra, dal momento che, essi sostenevano, la cultura dell’ambiente e della conservazione della natura era estranea alla cultura socialista e comunista, che Marx ed Engels parlavano solo di espansione della produzione e non si sono mai occupati di ecologia. Del resto non era stato Lenin a spiegare che il comunismo consisteva nei soviet e nell’elettrificazione?

Una svolta verso la comprensione e la diffusione popolare del pensiero di Marx ed Engels sull’ecologia, o, meglio, sui rapporti uomo-natura, si è avuta nel novembre 1971 quando l’Istituto Gramsci organizzò a Frattocchie un seminario sul tema: «Uomo natura società», il titolo del volume degli atti pubblicato pochi mesi dopo dagli Editori Riuniti. Una delle relazioni fondamentali fu quella del prof. Prestipino che ampliò poi l’argomento nel suo libro: «Natura e società».