Foreste? C’eravamo sbagliati! Nessuna buona notizia…

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La riforestazione non sostituisce la deforestazione. Il Global Forest Resource Assessment nel 2010 aveva compreso all’interno della definizione di «foreste» le aree coperte da piantagioni o riforestate. Da questi trend positivi si era frettolosamente concluso che nel decennio 2000-2010 il tasso di deforestazione fosse diminuito

Non si tratta di leopardiano pessimismo cosmico. E nemmeno di terrorismo ambientalista. Quello che può essere letto tra le righe durante i dibattiti della conferenza GeoCarbon che si tiene in questi giorni presso la Fao a Roma è che, nonostante il moderato recente entusiasmo, le foreste continuano a scomparire, ed anche a ritmo elevato. Proprio alcuni dati pubblicati dalla Fao nel suo Global Forest Resource Assessment (Fra) 2010 avevano fatto storcere il naso a molti ricercatori ed associazioni ambientaliste a causa dell’integrazione all’interno della definizione di «foreste» di aree coperte da piantagioni o riforestate. Da questi trend positivi si era frettolosamente (e per la gioia delle compagnie del legname e di molti governi) concluso che nel decennio 2000-2010 il tasso di deforestazione fosse diminuito a -5,2 milioni di ettari ad anno rispetto ai circa -8,3/anno del decennio 1990-2000. Quello che emerge dalle molte presentazioni in corso a Roma su bilanci di carbonio, ruolo delle foreste, impatto degli incendi, etc. è che certamente c’è stata una madornale incomprensione del dato ed una sovrastima degli effetti positivi.

È chiaro, infatti, paragonando le foreste vergini ad un panino appena acquistato, che i primi dieci morsi, eliminando buona parte del nostro pranzo, avrebbero l’effetto di saziarci abbastanza pur preoccupandoci della sua imminente fine. Dopo altri cinque, la fame sarebbe quasi del tutto placata ed il timore della fine del panino svanito. Ma il quarto di panino rimanente non rappresenterebbe, ovviamente, il panino intero. Questo è ciò che inconsciamente accade con le risorse naturali. Un declino nel tasso di deforestazione ci illude che «la fame sia svanita», ma non ha nullo di positivo. Certo è meglio di un aumento, ma non implica che le foreste siano salve.

Considerando che 4 miliardi di ettari di foreste (pari a circa il 31% dell’intera superficie delle terre emerse) restano a ricoprire il nostro pianeta e che sino agli anni 80 oltre il 60% della copertura primaria è stato tagliato soprattutto in Europa e Stati Uniti, le recenti stime non possono tranquillizzarci. Infatti una volta esaurita buona parte delle risorse forestali del «nord» i Paesi coloniali hanno iniziato la lunga corsa alla deforestazione nel «sud», portando a livelli allarmanti la situazione mondiale.

È in America latina, in Africa e nel Sud-est asiatico che si concentrano oggi i maggiori profitti sul taglio delle foreste primarie. Il problema di fondo è che per ogni ettaro riforestato nel nord del mondo, che ha smesso di attingere alle proprie depauperate risorse vegetali, se ne eliminano cinque nell’emisfero australe. Associato all’incomprensibile cannibalismo neo-coloniale c’è la necessità di assecondare il fabbisogno di popoli in pieno sviluppo, che necessitano di legna da costruzione, per la cucina ed il riscaldamento. Tutto questo porta ad una perdita di 13-16 milioni di ettari all’anno.

Quando però del panino son rimasti pochi morsi, è necessario fermarsi per pensare che il giorno dopo ci sarà ben poco da mangiare. Tutto questo dimostra che la deforestazione non è affatto diminuita in termini assoluti, ma si è solo spostata più a sud.

D’altra parte le stime spesso, a causa di dati non puntuali o di definizioni molto elastiche, considerano per le proprie statistiche come foreste anche alcune piantagioni tipiche dei paesi tropicali, che dalle immagini satellitari assomigliano molto a giungle incontaminate. L’errore non è forse del tutto casuale. Di certo falsa un dato e ne sottostima la rilevanza. Piantagioni ed aree afforestate e riforestate non compensano minimamente la deforestazione. La confusione deriva dal fatto che molti enti di ricerca, ammaliati dai capitali concentrati nell’analisi del clima che cambia, hanno conteggiato il valore di una foresta in termini di quantità di anidride carbonica equivalente sottratta all’atmosfera. Pertanto, un bel bosco di querce ripiantato o una distesa di palma da olio, secondo i calcoli approssimativi dei climatologi e dei forestali, compensano la perdita di vere e proprie foreste.

Gli alberi assorbono carbonio. Le foreste sono fatte di alberi. Nelle piantagioni si coltivano molti alberi. Quindi, le piantagioni assorbono carbonio, come le foreste. Il sillogismo, però, è infondato per due ragioni. La prima è che le piantagioni e le aree riforestate non contengono lo stesso quantitativo di carbonio di una foresta vergine perché non hanno la struttura multistrato, la fitta maglia di epifite, liane, rampicanti, plantule e germogli, legno morto, etc. che trattiene per anni molta più CO2 di ogni altra «foresta antropogenica».

Il secondo, e ben più rilevante, è dovuto all’ignoranza che caratterizza molti settori della ricerca ambientale riguardo l’analisi dei sistemi complessi. In altre parole, la rete della vita.

L’atomizzazione è un mostro pericoloso che sinora ha portato conclusioni errate provenienti da analisi semplicistiche. Non si possono scomporre gli elementi che formano una foresta primaria in semplici alberi, o in strati, o in ruoli funzionali, o in assorbitori/emettitori di carbonio, etc. Una foresta è un complesso integrato di parti indissolubili che svolgono funzioni ben al di sopra della possibilità dei singoli elementi. Così se ad una foresta vergine si sostituisce una piantagione si perde non solo molta della capacità di assimilare carbonio, ma oltre il 90% della sua biodiversità, delle funzioni ecosistemiche (come l’impollinazione, la regolazione dei cicli biogeochimici, la stabilità del suolo, etc.) ed il valore intrinseco di quell’ambiente, che va al di là del semplice interesse umano.

Poco c’è da rallegrarsi, dunque, se al posto di un meraviglioso ecosistema tropicale di mangrovie o di giungle pluviali si coltivano palme o alberi della gomma, si ripiantano foreste in Francia o in Germania.

Certo è fondamentale recuperare la copertura vegetale persa nei secoli e l’opinione pubblica è molto attratta da programmi di compensazione delle emissioni o dai moderni eroi intenti a piantare alberi nel mondo, come hanno recentemente dimostrato libri, film ed il clamore per il ragazzino tredicenne che, pare, abbia piantato un milione di alberi in tutto il mondo. Tutto molto fiabesco, bello ed utile, ma se allo stesso tempo non si arresta l’attuale livello di deforestazione, spesso mascherato dagli Stati (ed anche da chi dovrebbe monitorarli), non si riuscirà, neanche con miliardi di alberi piantati all’anno a riportate quella straordinaria diversità della vita che caratterizza ecosistemi antichi e complessi e ne permette l’armonioso funzionamento.

Tra piantare un albero e lottare perché anche solo un ettaro di foresta vergine non scompaia c’è molta differenza. Sembra un cliché, ma fa molto eco-chic piantare i platani o le betulle in giardino o nelle metropoli, sentendosi eco-friendly, pur avendo in casa parquet in legno dalle foreste brasiliane, infissi in tek dall’Africa e mobili in mogano dall’Indonesia.

L’ossessione per le emissioni ha fatto un po’ a tutti, anche ad i massimi esperti, dimenticare che un ambiente naturale è qualcosa di più di un semplice serbatoio per gli scarti umani. La trama della vita, così complessa ed articolata, probabilmente ci sfuggirà sempre nei suoi più intimi dettagli. Ciò che però sappiamo per certo è che sono proprio questi dettagli i primi a scomparire quanto proviamo a semplificare la Natura, secondo nostri semplicistici schemi, nel tentativo di «compensare» i danni arrecati in un differente spazio-tempo. Non le conferenze, gli accordi internazionali, i consessi di scienziati, ma solo l’umile ammissione di esser parte della grande rete ecologica e, non potendola comprendere sino in fondo, di avere l’obbligo naturale di tutelarne ogni parte potrà salvare le foreste, ma anche i mari, i laghi, le savane e tutti quegli ambienti che la Terra costruisce in milioni di anni e noi ci illudiamo di poter ricreare nell’arco della nostra effimera esistenza. Madre Natura non gioca a dadi.