La curiosa coincidenza di alcuni servizi giornalistici sulla deforestazione in Africa… e nella Rete un mare di denunce e documenti fanno emergere un lato oscuro che pone interrogativi
Che si parli di Africa e di deforestazione sui principali quotidiani nazionali e sulle TV di Stato è fatto assai raro. Che avvenga in parallelo e nell’arco di una settimana è aspetto quantomeno curioso. Su «la Repubblica» di lunedì 21 novembre è stato pubblicato un articolo a firma di Antonio Cianciullo, giornalista esperto di tematiche ambientali, dal titolo: «Nel cuore verde dell’Africa che rischia di scomparire».
Il giornalista, dopo esser stato inviato in Centrafrica, nel cuore del bacino del Congo, all’interno del Parco nazionale del Dzanga-Sangha, ha realizzato un reportage con cui descrive la tragica situazione delle foreste tropicali africane. Nel servizio parla di «segherie che hanno rubato altro spazio chiedendo impianti di produzione elettrica, che a loro volta hanno bisogno di altre strade per far passare i camion, i materiali, gli operai». Nessun nome, però, di quali siano queste aziende. Cianciullo ricorda il pericolo che minaccia anche le popolazioni indigene: «Assieme agli alberi rischia di scomparire la cultura dei bayaka, i pigmei che per secoli hanno vissuto usando le piante come dispensa e farmacia» e regala un velo di speranza riportando le confortanti parole di Isabella Pratesi, responsabile conservazione del Wwf Italia: «Per salvare questo patrimonio dell’umanità stiamo lanciando anche in Italia, con l’arrivo di Yolanda Kakabadtse, l’ex ministro dell’Ambiente dell’Ecuador che si è battuta per inserire nella costituzione la difesa della natura come misura del benessere, la campagna per la protezione del cuore verde dell’Africa».
Stessa solfa avviene durante il reportage, andato in onda sabato 26 novembre alle 23,30 del TG2 Dossier, in cui Laura Berti ha osato portate sulla rete nazionale la scomoda vicenda della distruzione delle foreste congolesi («Sulle tracce di Makumba»). Anche lei accompagnata nel territorio dello Dzanga-Sangha dalla referente del Wwf Italia, e probabilmente parte della stessa identica missione con cui si è mosso anche il giornalista di «Repubblica». La Berti mostra le infinite bellezze di quelle foreste, i gorilla che tranquillamente si alimentano tra le foglie, gli elefanti che cercano acqua nella salina e fa qualche sparuto accenno alle problematiche della deforestazione ed alla piaga del bracconaggio. Più che un’inchiesta, anche questa, sembra essere il diario di viaggio di un turista occidentale alle prese per la prima volta con i problemi dell’Africa e soprattutto, reo della classica superficialità che caratterizza il giornalismo ambientalista e scientifico moderno degli ultimi tempi.
È davvero encomiabile che i due reporter italiani abbiano voluto dar spazio ai problemi che riguardano le foreste africane, ma quando l’approccio è demagogico, l’effetto è ancor più dannoso delle stesse problematiche che si documentano.
Infatti, nell’ultimo anno il Wwf Italia ha dato vita ad una campagna di greenwashing nei confronti dell’opinione pubblica per nascondere il suo appoggio alla deforestazione africana. Come dimostrano alcune recenti inchieste ed un video su YouTube
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il Wwf si è reso complice della deforestazione in Camerun nei pressi del Parco Nazionale di Lobekè, proprio qualche centinaio di metri sull’altra sponda del fiume Sangha, rispetto a dove i due giornalisti hanno realizzato i loro servizi.
Secondo quanto riportato a commento della video-inchiesta si «dimostra come il Wwf Italia si faccia finanziare dalla deforestazione in Camerun. Avviando nel 2011 una partnership da 50.000 euro con la Vasto Legno (un’azienda di legname italiana con sedi a Milano e Vasto), (l’associazione) è complice del taglio delle ultime foreste vergini africane e della distruzione degli ultimi popoli Pigmei. Vasto Legno è l’importatore unico del legno ricavato dalla deforestazione spesso illegale operata in Camerun da Sefac».
Il video dimostra come «il Wwf è diventato partner ufficiale di un’azienda più volte sanzionata per tagli illegali, abusi sui pigmei e sui dipendenti, cedendo il suo marchio. In questo modo sta alimentando il greenwashing, fornendo un’immagine pulita e distorta dell’operato di Sefac e Vasto Legno sul proprio sito web Imprese per le foreste. Il Wwf dimostra così di non essere una vera associazione ambientalista e di ottenere i suoi fondi dalla distruzione delle ultime foreste vergini!».
Ed in effetti, sia sul sito dell’associazione sia su quello della Sefac e della Vasto Legno compaiono i vari loghi a conferma della partnership avviata. Addirittura sul sito realizzato dal Wwf per promuovere la salvaguardia delle foreste c’è un intera sezione dedicata alla Vasto Legno (Sefac) in cui si parla di «collaborazione istituita col Gruppo Sefac in Cameroun, nel Bacino del Congo, una delle aree più sensibili del pianeta in termini di biodiversità, (che) ha esteso e rafforzato la responsabilità e l’impegno di Vasto Legno riguardo agli aspetti sociali, ambientali ed etici». In realtà dell’impegno di Vasto Legno e del Gruppo Sefac in termini di tutela dell’ambiente e delle popolazioni locali nessuno si è realmente accorto visti i molti documenti e documentari che circolano sul Web (tra cui il bel reportage girato nel 2010 di Alessandro Rocca, «La foresta impossibile»)
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in cui si parla anche di Sefac ed i moltissimi documenti di denuncia di Greeenpeace e Fsc Watch contro Sefac e Vasto Legno.
D’altronde, anche nella stessa riserva dello Dzanga-Sangha, il Wwf non sembra realmente interessato alla tutela del sito, quanto alle sue finanze.
Oltre ad utilizzare, al contrario di quanto riporta la Berti, i popoli pigmei come guide da campo, invece di permettergli di vivere seguendo le loro tradizioni in quelle stesse foreste, ha avviato un colossale progetto di ecoturismo riservato solo ai più abbienti (una visita ai gorilla costa fino a 250 $, escluso noleggio dell’auto ed accompagnamento) ed ha messo in moto un programma di «abituazione» dei primati alla presenza umana. Quest’ultimo, seppur apparentemente volto alla tutela degli ultimi gorilla di pianura viventi, ha il più interessato scopo di permettere ai turisti, accompagnati da reietti pigmei, di incontrare gli animali, giustificando la cifra spesa all’ingresso del parco.
Inoltre, l’abituazione dei gorilla ha un effetto collaterale non marginale. Data l’instabilità della Regione e le continue rivolte sociali e politiche accompagnate dalla guerriglia armata, la possibilità che animali abituati alla presenza umana non scappino dinanzi a militari o bracconieri, ben diversi dagli innocui antropologi dotati di taccuino, è elevata. Ma, ancora una volta, a prevalere non è stato l’interesse per la tutela degli animali (che avrebbero potuto vivere protetti nel parco anche senza l’abituazione), ma l’antropocentrismo e l’utile economico.
Di tutto questo Cianciullo e la Berti non parlano. Non per colpa loro, sicuramente in buona fede, ma perché assuefatti come tutti noi dalle mezze verità di associazioni che in passato hanno rivestito un ruolo fondamentale nella salvaguardia dell’ambiente, come il Wwf e che spesso, oggigiorno, invece di contribuire a risolvere una problematica ecologica, ne favoriscono, nascondendole col greenwashing e traendone un miserabile profitto, le cause che ne sono all’origine. Ciò che davvero sorprende è come mai un’associazione che nei suoi 50 anni di storia si è fatta paladina della difesa dell’ambiente, adottando approcci innovativi come la promozione delle Oasi (fiore all’occhiello della conservazione in Italia) o le campagne in difesa del Mediterraneo, possa scendere a patti col diavolo pur di colmare qualche buco nel budget. Perché l’ambientalismo puro e propositivo di cui il Wwf si è sempre fregiato, ha lasciato il posto all’economia d’assalto, dove ogni risorsa, di qualunque origine e di qualunque provenienza, è accettata, anche se ha origine da attività che si svolgono in direzione esattamente opposta ai principi dell’associazione? È possibile che la crisi economica abbia sostituito i costumi da panda con quelli da ragioniere senza scrupoli?
Ad ogni modo il Wwf Italia non è nuovo ad ambigue sponsorizzazioni, scandali che dopo l’uragano che ha travolto l’immagine dell’associazione in Germania,
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non sembrano più essere di grande rilevanza. Alla fine ciò che passa attraverso i mezzi d’informazione è il lato pulito di un panno, a dir poco, sporco e che non si lava più in casa propria. Una domanda resta da porre al Wwf: può un’associazione ambientalista farsi finanziare una campagna di salvaguardia delle foreste da un colosso del legname che, paradossalmente, ricava il suo profitto proprio dal taglio degli ultimi lembi vergini tropicali, minacciandone la biodiversità e minando la sopravvivenza delle fragili popolazioni indigene? (R.V.G.)