Sacchetti bio e non: dubbi e successi

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Non poche le criticità individuate. Come riconoscere un sacchetto «bio». nel giro di soli tre anni le vendite delle sportine sono passate da 12.000 a 5,7 milioni di pezzi con un conseguente dimezzamento della vendita di sacchetti monouso

Dalla plastica al bio: inutile nasconderlo, sono tante le criticità che emergono nell’inchiesta di Virgilio Go Green. Funzionalità dei sacchetti, norme ancora confuse e nessuna sanzione prevista per chi le aggira, effettiva compostabilità delle buste vendute dagli esercenti, questi i nodi principali che sono venuti al pettine. Ma una cosa è certa: la terza rivoluzione culturale è iniziata.

Rispettando l’obbligo delle cinture in auto e il divieto di fumare nei locali pubblici, gli italiani dimostrano di avere stoffa. Il caso dei sacchetti di plastica conferma la regola e i risultati raggiunti sono importanti: nel giro di soli tre anni le vendite delle sportine sono passate da 12.000 a 5,7 milioni di pezzi con un conseguente dimezzamento della vendita di sacchetti monouso, per giunta «bio» (dati Coop), e il 75% delle persone dichiara di utilizzare borse riutilizzabili. Per difendersi dalle fregature basta stare attenti: se il sacchetto è stampato con il marchio OK Compost o Compostable significa che ha superato tutti i controlli comunitari ed è biodegradabile al 100%, altrimenti è un falso.

Falso bio e norme incerte

I sacchetti «bio» sono veramente bio o, piuttosto, ne esistono versioni contraffatte cariche di plastica non compostabile? Qualcosa rimane ancora in sospeso per quel che riguarda la normativa: non c’è chiarezza, ad esempio, sul momento in cui non si potranno più usare le giacenze di pacchetti in plastica vecchia maniera (che però si è obbligati a distribuire gratis) e sul tipo di sanzioni che toccano a chi sgarra.

Tuttavia, il bilancio complessivo appare positivo. E qualche punto fermo esiste. Da sfatare, in prima istanza, il luogo comune che i sacchetti bio siano inevitabilmente scadenti dal punto di vista funzionale: se di buona qualità e utilizzati correttamente, possono reggere più di 10 chili di spesa.

Per difendersi invece dal rischio di utilizzare sacchetti «pseudo bio» e non compostabili basta fare attenzione: bisogna scegliere le shopperine con sovraimpresso il marchio OK Compost e/o Compostable Logo che possono essere presenti solo sulle confezioni regolari.

Esempi virtuosi, la grande distribuzione

A funzionare da volano della «riforma» che ha anticipato le scelte della Ue e degli altri Paesi della comunità sul tema, è stata probabilmente proprio la politica tutto sommato omogenea e coordinata delle sigle principali della grande distribuzione, massicciamente e coerentemente impegnate a promuovere la svolta. I motivi di tanta virtù? Perché lo imponeva la legge e perché ormai la corporate responsability è un valore a cui tutti i brand rilevanti devono attenersi. E poi perché l’Italia probabilmente sta funzionando come test per capire quello che prima o poi accadrà in tutti i paesi della Ue.

Forse anche per banali ragioni di convenienza. A conti fatti, emerge che i consumatori hanno condiviso la scelta del riutilizzabile: nel 2008 sono stati venduti 450 milioni di sacchetti di plastica tradizionale usa e getta; nel 2011, invece, si stima che saranno venduti 220 milioni di shopper biodegradabili (circa la metà). A questo bisogna aggiungere la vendita delle sportine riutilizzabili che, entro la fine dell’anno, arriverà a 5,7 milioni di pezzi (erano solo 12.000 nel 2008).

Con il passaggio ai sacchetti compostabili, ceduti a dieci centesimi e offerti assieme ad altre opzioni relativamente costose (dalla borsa più rigida riutilizzabile alle sporte in carta) è possibile che alla fine i grandi distributori (nonostante il costo più elevato della materia prima bio) ci guadagnino qualcosa.

Ma va pure sottolineato che questo possibile surplus di vantaggio per i negozianti si accompagni a una gestione più complicata del sacchetto bio, che ha una scadenza, ed è poi strettamente collegato all’eventuale pigrizia e carenza di organizzazione con cui i consumatori reagiscono alla nuova situazione. In sostanza, se dall’altra parte del banco chi compra fa incetta di pacchetti bio senza starsi troppo a chiedere quanto impattino sul proprio conto della spesa, è facile che per la Gdo questo si traduca in un vantaggio più ampio di quello garantito dall’equilibrio precedente.

La reazione dei consumatori

Da una parte, i consumatori dimostrano un alto grado di consapevolezza sulla tematica: il 90% dei cittadini interpellati da una ricerca Assobioplastiche-Ispo del luglio scorso dice di essere al corrente del divieto di commercializzazione dei sacchetti di plastica e, pur facendo confusione sulle caratteristiche delle nuove buste amiche dell’ambiente, è a conoscenza di una norma di riferimento europea sulla biodegradabilità – e parallelamente un livello di apprezzamento notevole del provvedimento che manda in pensione le shopper in polietilene (il 94% lo ritiene un doveroso passo avanti nel rispetto dell’ambiente).

Dall’altra, però, la sensazione che emerge dagli studi fatti è che, spesso, l’impegno manifestato a parole rimanga nel limbo delle intenzioni inespresse. Il 15% di chi dichiara di porre estrema attenzione al materiale di cui sono fatte le buste, per esempio, al momento di pagare ammette di non farci più assolutamente caso per distrazione. E a dispetto della simpatia che quasi tutti dimostrano verso i nuovi sacchetti in bioplastica (o forse verso l’idea di sostenibilità, innovazione e riduzione dell’inquinamento che portano con sé), solo il 26% degli intervistati li ritiene migliori rispetto a quelli vecchio stile e addirittura il 73% del campione afferma di romperli praticamente ogni volta che li acquista. A livello pratico, un piccolo disastro (dati Unionplast-Eurisko, aprile 2011).

Per questa motivazione sono le borse riutilizzabili (quelle usate dalle care vecchie nonne) a trionfare tra i banchi di frutta e verdura al mercato ma anche al supermercato, con il 75% di fedelissimi che se le portano dietro ovunque (salvo poi lasciarle in macchina per sbadataggine o chiuse a riposare nella borsa per la fretta). Contro solo il 22% che dichiara di far uso di sacchetti bio e il 4% che preferisce la carta, una soluzione poco sfruttata dai commercianti, sottolinea Confersercenti, a causa dei suoi costi elevati. Numeri che, nonostante la legislazione poco chiara e l’assenza di provvedimenti sanzionatori per chi non la rispetta, fanno ben sperare, dimostrando come i segni di un positivo cambiamento, seppur in versione non ancora pienamente matura, ci siano davvero tutti.

Comportandosi bene, si risparmia: Coop ha stimato che se un consumatore medio prima spendeva 9 euro l’anno per l’utilizzo di 300 shopper usa e getta oggi con lo stesso quantitativo di borse bio ne spende 27. Ma con tre borse riutilizzabili, invece, il costo scende drasticamente a 2,4 euro, e si possono destinare ai rifiuti urbani 5 kg in meno di plastica.

(Fonte Go Green.it)