Il punto di svolta o quello di non ritorno?

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Ci troviamo dinanzi ad una fase decisiva per l’umanità. E se superiamo il punto di non ritorno non ci sarà nessuno che potrà raccontarlo. Il nodo della sovrappopolazione. Il punto di svolta l’abbiamo superato, ignorando il bivio che si è presentato all’umanità quando ancora eravamo 5 miliardi. Ora dinanzi a noi c’è solo quello di non ritorno

Una ventina di anni fa, era il 1990, il fisico teorico, donatosi all’ecologia, Fritjof Capra pubblicava il suo secondo saggio dal titolo «Il punto di svolta». Tema centrale del volume è una critica alla società materialistica occidentale. L’autore sottolinea che «come la fisica ha dovuto abbandonare la visione riduzionista per indagare l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande (teoria dei quanti e relatività), lo stesso dovrebbero fare medicina, biologia, sociologia ed economia».
In particolare l’ecologo sostiene che «una fra le caratteristiche più vistose delle economie di oggi, tanto capitalistiche quanto comuniste, è l’ossessione per la crescita. Crescita economica e tecnologica, sono viste come essenziali praticamente da tutti gli economisti e politici, anche se oggi dovrebbe essere abbondantemente chiaro che un’espansione illimitata in un ambiente finito può condurre solo al disastro»1.

La sua analisi, per quanto visionaria a quei tempi, si è rivelata essere, invece, di grande attualità al giorno d’oggi ed ha centrato appieno le problematiche principali della nostra epoca. In un parallelo, affascinante ed inquietante al tempo stesso, Capra ha paragonato la nostra incontenibile espansione sulla superficie del pianeta allo sviluppo di un cancro in un individuo: «…l’espressione crescita cancerosa è molto appropriata per definire la crescita eccessiva delle nostre città, tecnologie e istituzioni sociali… le conseguenze di questa crescita cancerosa sono patologiche per i singoli individui, oltre che per l’economia e per l’ecosistema»2.
Quella che solo vent’anni fa appariva come una riflessione necessaria per il rilancio di un nuovo paradigma verso la sostenibilità, si è rivelata essere la più catastrofica delle predizioni. Oggi difficilmente riusciamo ad osservare all’orizzonte un «punto di svolta» e piuttosto si materializza l’apocalittico «punto di non ritorno».

L’aspetto eclatante sta nel fatto che un simile mutamento di prospettiva si è realizzato in poco più di vent’anni (all’incirca l’età del Web), portando le coscienze collettive dalla speranza alla rassegnazione. La pressione sugli ecosistemi degli ultimi decenni, incrementata da un materialismo iper-tecnologico forsennato, dalla globalizzazione dei consumi e dall’esternalizzazione (con marginalizzazione verso le economie in via di sviluppo) dei costi ambientali e sociali, ha radicalmente ridotto le speranze.
Quei pochi barlumi, seppur a largo di un mare di congressi, dibattiti e promesse, sembravano poter garantire un tempo minimo di recupero.
Ma gli entusiasmi ed i passi in avanti fatti da alcuni Paesi europei non compensano minimamente la grande devastazione che si sta compiendo dall’altra parte del Mondo.

Dopo aver dilapidato le foreste, sbarrato e costretto i fiumi, cementato e coltivato oltre l’80% delle terre emerse, Europa e Nord America non potevano far altro che trovare un compromesso tra sviluppo umano e protezione dell’ambiente. Solo ora assistiamo, dopo due secoli d’indifferenza, ad un accresciuto interesse, anche dei poteri istituzionali, verso la tutela di quel che resta dell’ambiente naturale. Non si tratta, però, di un vero «punto di svolta» quanto di una risposta ad un’inviolabile legge della Natura: la capacità portante dell’ambiente. Il consumo delle risorse e del territorio, associato allo sviluppo della popolazione, porta ad una crescita sigmoide, al raggiungimento di un’insostenibile picco ed alla ridiscesa al di sotto dei livelli ammissibili.

Quali sono le conseguenze se si supera la capacità portante?

Gli ecologi hanno definito in passato molti concetti che ruotano intorno al principio della carrying capacity, introdotto dallo statistico belga Pierre François Verhulst, che ha ripreso la teoria malthusiana della crescita di popolazione. Si è dimostrato, ad esempio, che se una popolazione batterica in terreni di coltura prolifera consumando i substrati nutritivi, gli individui soprannumerari per via della competizione sulle risorse tendono a morire in massa sino a riportare la popolazione a livelli sostenibili. Se, però, la mano dello sperimentatore non aggiunge altro terreno di coltura quella popolazione, dopo la crescita incontrollata ed il repentino consumo delle riserve, non è più in grado o non lo è per molto tempo di utilizzare quelle scarse risorse e ritornare ai livelli precedenti.

Allo stesso modo, in ambiente marino, si è dimostrato che lo sviluppo del plancton segue principi di limitazione delle popolazioni naturali in relazione non solo alle risorse disponibili (nutrienti, luce, etc.) ma anche alla presenza di altre specie. Poi, col tempo, un simile equilibrio dinamico è stato provato per ogni specie (nel mondo vegetale, ad esempio, col principio di Liebig sui fattori limitanti o grazie all’analisi del ruolo dei predatori sull’equilibrio delle prede) ed in ogni ecosistema del Pianeta.
Poiché la specie umana, per quanto si senta distante dal mondo naturale, sottostà alle leggi che lo governano non può pensare di superare la capacità portante del suo habitat (che ormai comprende il Mondo intero) senza subirne le conseguenze. Al contrario di quanto sostenuto da Paul R. Ehrlich che ha sviluppato l’equazione IPAT per dimostrare che i limiti della capacità di carico di un territorio non sono fissi ma possono estendersi con l’apporto di nuove tecnologie in grado di aumentare la capacità produttiva di quell’ambiente, la Natura non è un pozzo senza fondo!

L’aspetto interessante è che raramente la scienza ha potuto dimostrare ciò che accade dopo il superamento della capacità portante. Cioè ciò che avviene in macroscala una volta superata la carrying capacity. In altre parole, superato il limite di sostenibilità, il consumo di risorse perpetrato sino ad allora, e quindi la scarsità di risorse presenti una volta giunti all’apice della curva a campana, permette o no la ripresa di una popolazione decimata e sovraffollata?
In qualche modo è come chiedersi se giunti al picco di consumo di petrolio, gas, carbone, foreste, bacini idrici, risorse ittiche e biodiversità sarà possibile, grazie all’inevitabile discesa sul fianco destro della sigmoide, ripristinare un equilibrio naturale che permetta la vita della nostra specie. Effettivamente non si conoscono gli effetti sul lungo termine di una permanenza oltre la capacità portante dell’ambiente. Se si stima che oggi già 3,5 pianeti Terra sarebbero necessari per sostenere i consumi della specie umana, è difficile capire cosa succederà in futuro. Ciò che sembra essere una certezza è che, in ogni caso, che si tratti di punto di svolta o di non ritorno, al di là di questo valore immaginario che da un ventennio abbiamo superato, la vita evoluta verso i cinque maggiori phyla attuali viene seriamente compromessa. Non solo la specie umana, dunque, artefice della distruzione innaturale del suo habitat sarà trascinata nel vortice dell’estinzione, ma anche le altre che con essa, e ben prima di essa, si sono evolute negli ultimi 3,5 miliardi di anni.
Quello che è in gioco non è l’esistenza stessa della vita. È molto probabile che, nonostante il cancro maligno rappresentato dall’espansione dell’umanità nel corpo di Gaia, la Terra riesca a preservare l’assoluto miracolo dell’esistenza. Ciò che è in serio pericolo è il lavoro lento dell’evoluzione della biodiversità, quello che ha reso il nostro Pianeta unico (o quasi!) e meraviglioso. Siamo vicini ad un reset globale dell’evoluzione. Un’involuzione compiuta da un’unica specie ai danni di miliardi di altre.

Un passo in avanti, cento indietro

Ad aggravare il quadro della situazione è il fatto che dopo decenni di campagne di sensibilizzazione, spesso inascoltate, politiche volte alla tutela dell’ambiente, pressioni da parte degli scienziati e dell’opinione pubblica, nella vecchia Europa e nei tecnologicizzati Stati Uniti solo da poco si vedono gli effetti di alcune misure di protezione e tutela della Natura. Il successo dei parchi nazionali, del recupero dall’estinzione certa di specie carismatiche o di leggi per la salvaguardia dell’ambiente sono ben poca cosa se analizzate in una prospettiva storica. Dopo secoli di sfruttamento incontrollato meno del 10% del territorio è stato concesso alla natura, meno del 5% è intatto da sempre, meno del 2% non conosce la presenza umana. Certo, la totale antropizzazione sarebbe stata già motivo di superamento del punto di non ritorno, ma se si volge lo sguardo lievemente a sud, le prospettive sembrano oscurarsi ancor più.

Dopo aver sfruttato sino all’osso i propri ecosistemi i Paesi sviluppati hanno spostato i propri interessi verso Sudamerica, Africa e Sudest asiatico, trasferendo un’idea fallimentare di sviluppo materialistico «all’Occidentale» (che non è mai sostenibile, come non può esserlo lo «sviluppo» di per sé) ed incrementando lo sfruttamento già in atto compiuto da popoli che per decenni sono rimasti in contatto con il mondo naturale ed hanno vissuto in maniera armoniosa ed integrata con esso e che d’improvviso la globalizzazione ha catapultato verso la «crescita». Ma crescere non è possibile in questo mondo chiuso ai cicli della materia. Tutto ciò che viene estratto in un punto, viene utilizzato in un altro. Così adesso 5 miliardi di persone stanno realizzando, in soli 50 anni, ciò che 2 miliardi hanno compiuto in qualche secolo.

Per carità, non si può negare la libertà di migliorare la propria condizione. Ma siamo proprio sicuri che lo sviluppo e lo sfruttamento indiscriminato della Natura siano benefici anche solo per la condizione umana? L’incidenza di tumori nella popolazione europea è quintuplicato in soli 15 anni. Non sarà questo forse un tetro strascico di un passato di «sviluppo» incondizionato? A cosa ambiscono i Paesi «in via di sviluppo», allora? Forse ad un modello imposto dove il possesso di beni materiali supera il valore dell’armonia, della pace, della quiete, dell’interrelazione con le altre specie e dell’interdipendenza con la Natura?
Quando gioiamo perché un altro comune italiano è passato alla raccolta differenziata porta a porta, non possiamo dimenticare che, allo stesso tempo, diecimila megalopoli in India, Brasile, Africa o Cina stanno riversando sui propri terreni tonnellate di liquami, rifiuti chimici e plastiche, che spesso bruciano emettendo diossine e furani. O non possiamo illuderci che la protezione dell’ambiente stia crescendo solo perché usiamo meno bottigliette in plastica per bere l’acqua, quando 4 miliardi di persone consumano e buttano via quotidianamente 4-5 bustine in plastica contenenti acqua filtrata, perché quella pubblica disponibile è totalmente contaminata.

È dunque solo questione di numeri?

Probabilmente sì. Quando dieci persone di un piccolo villaggio in Indonesia hanno bisogno di legna per costruire le proprie capanne utilizzano due-tre alberi e l’impatto sull’ecosistema è limitato. Potremmo definirlo «sostenibile». Ma se diecimila presone, nate in pochi anni, necessitano di un’abitazione la foresta limitrofa è seriamente compromessa. Se a questo si aggiunge il bisogno occidentale di materie a basso costo per i propri junk foods, come l’olio di palma, e la contemporanea creazione di bisogni derivante dalla commistione tra la cultura del colonizzatore e quella del colonizzato (bisogni come il cellulare, la tv satellitare, il motorino, l’auto, il condizionatore, i cibi in scatola, etc.), è chiaro che i numeri contano. Eccome.

Lo si dice raramente. Quasi mai nei mezzi di comunicazione di massa. Spesso le stesse associazioni ambientaliste sorvolano sulla questione e gli ecologi, nonostante conoscano le leggi di Natura ed il concetto di capacità portante, lo omettono. Ma la realtà è che siamo troppi. La popolazione umana ha toccato quota 7 miliardi, che diventeranno 9 in meno di un trentennio. La teoria ufficiale è che il mondo può sostenere una tale quantità di esseri umani e che non ci sarebbe scarsità di cibo, ma solo una cattiva distribuzione. Nulla di più falso.
Solo ciechi economisti possono sostenere questo paradigma keynesiano. 7 miliardi come anche 5 o 3, sono troppi non per la sopravvivenza stessa dell’uomo, ma per quella del Pianeta. Se vogliamo sacrificare le altre specie con un estinzione rapidissima, il 90% delle risorse ittiche, il 75% delle terre emerse, l’80% delle risorse idriche, etc. ovviamente possiamo spingerci anche al di là dei 10 miliardi. Ma a quale prezzo? Pagando il conto di un pianeta sofferente, sovraffollato, dove le poche specie viventi sono quelle utili all’uomo e le epidemie sono frequenti, i cicli della materia ed il flusso di energia completamente sconvolti e le retroazioni non più negative, di recupero, ma positive, di peggioramento. La resilienza della Terra, la capacità di ritornare ad un equilibrio dopo uno shock, del tutto compromessa.

Chiariamolo una volta per tutte, la sovrappopolazione è la principale minaccia per il Pianeta. Forse già 2 miliardi di uomini sarebbero troppi. Di certo 9 sono l’apocalisse. Anche se è previsto un declino verso una quota stabile dopo il 2050, nessuno è in grado di prevedere cosa resterà della Natura dopo quel picco. Nessuno sa cosa accadrà, ma è possibile analizzando i trend attuali fare alcune stime. E queste ultime non sono promettenti. Negli ultimi vent’anni oltre il 60% delle foreste del Borneo sono state tagliate. In altri 30 potremmo dire addio alla loro biodiversità. In vent’anni il 75% delle specie ittiche è stato seriamente compromesso dalle attività di pesca. In altri 30 anni ci saranno solo meduse… e così via.
Il punto di svolta l’abbiamo superato, ignorando il bivio che si è presentato all’umanità quando ancora eravamo 5 miliardi. Ora dinanzi a noi c’è solo quello di non ritorno. Ce l’abbiamo a pochi passi, forse proprio sotto i nostri piedi. Buttare la carta nel cestino della differenziata o andare in bicicletta non basta più. Bisogna comprendere come e dove quella carta e quella bicicletta sono stati prodotti, a discapito di chi, sfruttando quali risorse, quali ecosistemi e quali specie. Ma soprattutto chiedersi: ne abbiamo davvero bisogno? Bisogna smetterla di pensare di essere i soli padroni della Terra e dell’Universo intero. Che esista un dio che abbia a cuore solo le nostre sorti e non le altre specie e che ci ha donato il mondo «per sfruttarlo e soggiogarlo».
Siamo una delle tante specie, una delle infime creature che vivono sulla Terra, la più spregevole dal momento che continua a distruggere il proprio habitat. L’unico che possiede. Per svoltare, prima che sia troppo tardi, bisogna rientrare nelle Leggi della Natura, liberarsi da quelle dell’uomo. Decrescere. Limitare i bisogni. Annullare i consumi. Non comprare! Riutilizzare. Chiudere i cicli. Riaprire gli occhi. Ed arrestare lo sviluppo. Anche quello sostenibile. Fermare la sovrappopolazione, diffondere la contraccezione e l’educazione. Tornare umili. Sentire di essere parte. In armonia con la Terra.
Il punto di non ritorno è solo un punto, superato il quale non si torna indietro!

1Il punto di svolta, op. cit., pag. 176.
2Ibidem

 

Roberto Cazzolla Gatti, Biologo ambientale ed evolutivo, Ecologo teoretico