Bisogna riacquisire quell’intelligenza ecologica che Daniel Goleman ha sapientemente rispolverato dalle già consolidate abitudini dei nostri nonni, la necessità di non comprare. Non acquistare. Riparare, recuperare, aggiustare finché si può. Finché resta un solo pezzo di ricambio utile, un solo oggetto migliorabile e non sostituibile
«Crescete e moltiplicatevi… e poi?». Così recitava una vecchia vignetta scimmiottando il motto biblico dell’infinito progresso umano. L’immagine mostrava un pianeta pieno di uomini in bilico su quella sfera limitata che è la Terra, mentre alcuni, coloro che non sopravvivevano alla lotta per l’esistenza direbbero i neo-darwinisti, precipitavano miseramente verso l’infinito in un antigravitazionismo da fantascienza. Quel fotogramma di cartoon, nonostante la sua grossolanità, coglie nel segno riassumendo la fallacia dell’idea di crescita incondizionata propugnata non solo dal mondo ecclesiastico, ma anche da tutti coloro che invece di mettere in guardia l’umanità evitano volontariamente la discussione.
Uno degli effetti dell’iper-espansione umana sul Pianeta è l’appropriazione indebita di oltre il 60% di tutta la produzione primaria, cioè quella derivante dalla fotosintesi, a scapito di ciò che resta della Natura. Tale sottrazione di energia non solo danneggia profondamente gli ecosistemi, alterando i cicli della materia necessari al mantenimento dell’equilibrio dinamico in cui essi persistono e riducendo le popolazioni delle altre specie presenti sulla Terra, ma alimenta una produzione che travalica con il suo impatto i «confini planetari».
La tecnosfera in cui ormai vive buona parte dell’umanità è, infatti, un surrogato artificiale di quell’ecosfera in cui ogni cosa ha un senso, una funzione, un ordine. All’interno della tecnosfera ogni apparente necessità si trasforma ben presto nella creazione di un nuovo bisogno, alimentando un ciclo senza fine di produzione hi-tech e soddisfacimento materialistico della propria esistenza.
Sono più i bambini seduti dinanzi ad un computer in questo momento di quelli che corrono in un campo di grano o ammirano il parto di una gatta in un fienile. Ma non è la ricerca di un bucolico passato a dover interessare, né la demonizzazione di un modus vivendi, il materialismo tecnologico, che in un modo o nell’altro ha reso più facile ed apparentemente più soddisfacente la vita delle nuove generazioni.
Ciò che deve destare preoccupazione, oltre alle ripercussioni psico-sociali dell’avvento di un mondo surrogato fatto di pc e videogiochi, è la volubile ragionata esistenza dei beni che costituiscono la base su cui poggia il nostro amato benessere. iPhone, iPad, Smartphone, Tablet, Netbook sono straordinari congegni di apertura verso il mondo che, però, racchiudono in sé l’emblema di uno stile di vita usa e getta, che non solo danneggia l’ambiente, ma sfrutta anche le persone.
L’obsolescenza programmata è una vera e propria legge nell’attuale economia industriale. Studiare il modo affinché i prodotti non durino oltre un certo periodo di tempo, che solitamente corrisponde a qualche istante dopo il termine della garanzia. Nel caso di beni non tecnologici, l’obsolescenza potrebbe dirsi immediata. Non è un amarcord dolceamaro rievocare i nonni che parlavano di radio, tv, giradischi, automobili indistruttibili che per decenni avevano svolto il loro ruolo nel pieno delle facoltà. «Eh, le vecchie lavatrici duravano tanto»… «Ah, quei frigoriferi di una volta, potevi usarli per trent’anni ed erano sempre nuovi»… Un po’ per ragioni economiche, un po’ perché la globalizzazione con l’esternalizzazione dei costi su ambiente e persone ancora non aveva raggiunto gli attuali livelli di follia ed indifferenza, quelle esclamazioni malinconiche si riferivano ad un mondo in cui tutto era organizzato per durare.
Non c’era alcuna possibilità di sostituire ad ogni minimo guasto un qualunque bene materiale. Al massimo si poteva riparare ed, infatti, oltre il 70% dei mestieri era basato sulla specializzazione in un ars riparatoria che permetteva ad intere famiglie di vivere di quel reddito. C’era il calzolaio, il fabbro, l’idraulico, l’arrotino, l’aggiustatore di cucitrici, l’orologiaio, colui che riparava le macchine da scrivere, tutti impegnati a rimettere a nuovo, piuttosto che a produrre da zero, gli oggetti della quotidianità. Oggi, invece, ad ogni versione di cellulari, pc, televisori è necessario ricorrere all’acquisto di un nuovo modello. Dopo qualche mese il nuovo prodotto è già non funzionate perché assemblato in Cina, in fabbriche dalle pessime condizioni di igienico-sanitarie e di lavoro, che sfruttano manodopera a basso costo producendo con materiali scadenti ed inquinanti, estratti senza il benché minimo scrupolo dalle devastate aree naturali circostanti. O magari importate illegalmente dal bacino del Congo, dove si deforesta per recuperare le terre rare o dal Rio delle Amazzoni, dove dighe, sbarramenti ed acque intrise di mercurio da far invidia ad un tonno da sushi, servono innanzitutto a recuperare oro, petrolio e carbone che alimentano la folle produzione industriale moderna.
Un’obsolescenza che è all’origine della maggior parte degli squilibri mondiali e delle disparità di reddito che vede i poveri diventar sempre più poveri ed i ricchi arricchirsi ad ogni cellulare acquistato, ad ogni nuovo pc. Di questi tempi, però, riparare qualcosa è diventata un’impresa da fanatici. Per fare un esempio concreto, il computer dal quale è stato scritto questo articolo, nei soli primi due anni di vita (e già si direbbe un record di longevità dal momento che la casa produttrice definisce «due anni la vita media del modello») ha dovuto subire la sostituzione di scheda madre, schermo Lcd, tastiera, alimentatore e mouse. Impresa a dir poco disperata e che scoraggerebbe molti vista la penuria di pezzi di ricambio, anche usati, e soprattutto la carenza di persone capaci ormai di riparare qualcosa. Tanto vale comprarne uno nuovo, come suggeriscono coloro che un tempo aggiustavano ed ora, invece, vendono «il nuovo».
Non ne vale la pena, dicono. D’altra parte se si conteggia la somma spesa nella riparazione anche di un semplice notebook si arriva vicini al prezzo dello stesso oggetto appena prodotto. Ovvio, se l’esternalizzazione dei costi ricade sempre su chi non ha voce. Se per riparare un pc con pezzi usati si spende quanto acquistarne uno nuovo, dov’è conteggiata nel prezzo sullo scaffale la manodopera, il costo delle materie prime, l’impatto delle estrazioni delle risorse naturali ed i costi di trasporto? Semplice, sono finiti nel cestino del debito ecologico che da tempo accumuliamo e sotto il tappeto dei diritti umani, dove una polvere nera di soprusi e maltrattamenti è nascosta alla vista di superficiali coscienze che sfoggiano il modello all’ultimo grido. E questo vale per tutto. Anche per le semplici stoviglie, che si frantumano dopo due utilizzi o per i televisori, ultrapiatti, alta qualità, dolby surround che dopo un anno devi cambiare perché «già vecchi e mal funzionanti».
Ma l’obsolescenza programmata di un mondo in mano alle multinazionali sfoggia il suo cavallo di troia nell’invenzione dell’«ultima versione aggiornata». Un altro modo per dire: abbiamo cambiato un pezzo non indispensabile ad un prodotto che già avevi, ma se lo vuoi non puoi sostituirlo a quello che hai, devi ricomprartelo nuovo per intero. Così una Ram, una scheda madre, un circuito stampato per l’Hdmi, un semplice Abs, tutte tecnologie che di per sé sono di gran vantaggio (ed a volte salvano la vita) diventano la scusa per indurre all’acquisto. Buttare il vecchio per comprare il nuovo. Non è a questo che servono gli incentivi alla rottamazione delle auto? Li chiamano eco-incentivi, ma l’eco si sa, è qualcosa che torna sempre indietro come un boomerang. Cosa ci sarà mai di ecologico nel sostituire la vecchia auto con una nuova? La risposta è preconfezionata: le nuove tecnologie, come la marmitta catalitica Euro 4, il controllo elettronico dei consumi, il sistema ibrido permettono di ridurre l’impatto della vettura sull’ambiente e rendono la tua vita migliore. Peccato che come tutti i buoni ecologisti sanno «l’auto più ecologica è quella che non compri». Così una vecchia Punto, magari Euro 0, inquinerà di più circolando per le vie cittadine con la sua marmitta che borbotta fumi, ma sarà certamente di minor impatto sull’ecosfera di una nuova Citycar prodotta con l’utilizzo di nuove materie prime e di nuove risorse naturali, satolla di elettronica divora-energia, importata dall’altra parte del mondo dov’è stata fabbricata in industrie inquinantissime… che però alimenta la tecnocrazia. Il governo della tecnologia.
Nella cecità della green-economy abbiamo dimenticato gli insegnamenti vernacolari. Quelli che provengono da un passato non molto lontano e che ci hanno permesso di essere felici pur senza «il modello all’ultimo grido». Così le lampadine a risparmio energetico non hanno segnato una graduale sostituzione delle vecchie inquinanti con le nuove, led o fluorescenti, prodotte nel rispetto dell’ambiente, e magari anche dell’uomo. No, governi ed associazioni hanno premuto affinché cambiassimo le vecchie lampadine con i bulbi a filamento con quelle a risparmio. Che però sono quasi tutte prodotte in Cina, contengono un’enorme quantità di plastiche ed altri materiali non riciclabili ed hanno corroso le mani dei bambini che le assemblavano fondendo metalli pesanti.
Ecco, quindi, che nel tentativo tipico dell’umanità di rimediare ai danni della tecnologia con la tecnologia, si produce qualcosa che è peggio di ciò che si sostituisce. Ovviamente dal punto di vista della Natura, che è l’estrema ratio a cui rivolgere l’attenzione. Non certo dal punto di vista della multinazionale, il cui solo scopo è alimentare un’economia lineare fatta di produzione e consumo o quello dei governi, che ad ogni pie’ sospinto invitano ad uscire dalla crisi aumentando gli acquisti. Certamente, parafrasando Lester Brown, le crisi economiche possono far paura e possono anche esser superate, ma quelle ecologiche alimentate dall’acquisto compulsivo, dallo sperpero delle risorse naturali per la produzione dei beni e dall’obsolescenza programmata, non lasciano possibilità di scampo.
Allora, si affaccia come un’esigenza impellente per recuperare il piacere dell’utilizzo e non quello del consumo, per riprendere contatto con gli oggetti che accompagnano la nostra effimera esistenza ed apprezzarli e per riacquisire quell’intelligenza ecologica che Daniel Goleman ha sapientemente rispolverato dalle già consolidate abitudini dei nostri nonni, la necessità di non comprare. Non acquistare. Riparare, recuperare, aggiustare finché si può. Finché resta un solo pezzo di ricambio utile, un solo oggetto migliorabile e non sostituibile. Finché la quantità di oggetti posseduta si assesti al livello di quella necessaria ed inizi a stazionare intorno a quelle cifre, perché ad ogni novità non segue obbligatoriamente un consumo. Solo quando i beni di consumo diverranno beni di utilizzo e l’obsolescenza programmata farà posto alla sobrietà incondizionata, allora i pianeti che utilizzeremo torneranno ad esser pian piano due, e poi uno. Com’è uno solo è quello che abbiamo a disposizione. E così smetteremo di sentirci importanti solo perché possediamo gli oggetti ed inizieremo a considerarli per quello che sono. Beni utili al nostro servizio, ricavati dall’ingegno umano che non deve progredire a discapito degli uomini nelle fabbriche lontane dagli occhi del consumatore e dai luoghi di produzione e della Natura, che è il bene più prezioso che l’uomo e le altre specie possiedono e che è la più limitata delle risorse.
Difficilmente questo cambiamento potrà arrivare dalle multinazionali, che sarebbero danneggiate dal differente atteggiamento del cittadino non-più-consumatore. La rivoluzione culturale deve iniziare dal basso, dall’estenuante volontà dei singoli nel fare la propria parte per ridurre i consumi, riparare il riparabile, riciclare tutto il resto. Quando, domani, il televisore comprato da qualche mese inizia a fare i capricci cercate di farlo aggiustare, anche se il prezzo della riparazione si avvicina a quello del nuovo modello. Perché nell’immediato potrebbe anche non esserci una grande convenienza dal punto di vista monetario, ma a guadagnarci saranno l’ambiente e gli uomini coinvolti nell’impattante processo di produzione ex-novo. E poi dopodomani, quando l’economia e l’ecologia saranno finalmente considerate la stessa cosa, tutti quei beni riparati e non comprati avranno acquisito un plusvalore che andrà al di là del mero materialismo. Diverranno i simboli di un cambiamento radicale nella storia umana: l’era della sobrietà felice, dove le persone e la Natura contano più di una scatola di plastica dispensatrice di illusioni.