Solo grandi promesse e costi esorbitanti. Cia e Vas riaprono il dibattito su Ogm e clonazione a fini alimentari. Bocciati dai consumatori in maniera inequivocabile, così come dagli agricoltori, dagli artigiani e dagli ambientalisti. Perché l’Italia dice no
I «cibi da laboratorio» non servono: il patrimonio di biodiversità animale e vegetale nel mondo è così vasto e completo che va solo opportunamente preservato e selezionato. Quindi investire grandi capitali per creare nuovi prodotti «artificiali» non ha senso. I consumatori bocciano in maniera inequivocabile gli Ogm e la clonazione a fini alimentari. Quando i cittadini sono stati consultati sull’argomento, in Italia e in Europa, hanno detto «no» con percentuali vicine all’80 per cento. La sensazione diffusa è quella di un grande «bluff» che punta al sensazionalismo: dal «toro fotocopiato» all’hamburger in provetta. Ma, nei fatti, si traduce in miliardi spesi in ricerche e sperimentazioni senza alcun vantaggio concreto per la collettività. Nel nostro paese poi, questo tema diventa quasi inutile quando si leggono i dati sul «made in Italy» agroalimentare fatto di prodotti tipici e di qualità. Da una parte c’è un settore che vale 245 miliardi di euro, dall’altra nessuna bistecca clonata o verdura transgenica sullo scaffale né consumatori disposti a comprarli. Questa l’analisi che emerge dalla conferenza indetta da Cia-Confederazione italiana agricoltori e Vas-Verdi Ambiente e società per lanciare l’iniziativa «Mangiasano 2012», che il prossimo 19 maggio proporrà manifestazioni, degustazioni, laboratori e mercatini in tutta Italia.
«Mangiasano», spiegano i promotori dell’iniziativa, nasce non soltanto per far conoscere le eccellenze ai cittadini, valorizzando le produzioni naturali della nostra agricoltura, ma vuole essere una giornata di dibattito e discussione sui temi legati all’alimentazione, all’agricoltura e all’ambiente di oggi e del futuro.
Chiedere ai consumatori italiani di mangiare cibo «hi-tech» è come proporre a un calciatore di giocare con un pallone quadrato. La domanda alimentare nel nostro Paese, dicono Cia e Vas, è chiara e netta: cibo naturale, tipico, salubre, controllato, certificato e chiaramente etichettato, possibilmente a prezzi contenuti.
Le nostre produzioni di eccellenza, continuano Cia e Vas, fanno grande il made in Italy nel mondo, con esportazioni che muovono circa 30 miliardi di euro l’anno. I mercati stranieri chiedono vini, oli, formaggi, salumi e trasformati tipici dei nostri territori, con i loro sapori caratteristici. Il valore aggiunto delle produzioni agricole e alimentari italiane sta proprio nella diversità, nell’inimitabilità del loro sapore. Omologare le produzioni agricole e, quindi, i gusti, si tradurrebbe nella perdita secca del valore, azzerando la competitività, su scala mondiale, della nostra agricoltura. Assieme a questo c’è da considerare l’impatto negativo che alcune sperimentazioni hanno sull’ambiente naturale e sui suoi delicatissimi equilibri.
D’altra parte, osservano Cia e Vas, la biotecnologia applicata a fini alimentari finora è costata moltissimo, sia in termini economici sia in tentativi falliti. Oggi i risultati della «fotocopiatura» di animali non sono coerenti con le previsioni ottimistiche e fiduciose, perché alla prova dei fatti la clonazione animale mostra risultati molto bassi, per quanto riguarda l’aspettativa di vita e l’effettivo stato di salute dei cloni, avvalorati da costi mille volte superiori a quelli di produzione degli animali convenzionali. Ma continua a «tentare» l’aspetto del business: solo per fare un esempio, l’azienda che finanziò l’esperimento per portare alla luce la prima pecora clonata Dolly fece un salto in Borsa del 16 per cento in un solo giorno solo con l’annuncio.
Questo non vuol dire che noi siamo contrari alla ricerca e alla sperimentazione, chiariscono Cia e Vas, ma piuttosto preferiremmo che fosse promossa e incentivata nei settori in cui vi è una reale necessità. In agricoltura, nel settore alimentare e per l’ambiente le priorità negli investimenti dovrebbero essere altre. Partendo, per esempio, da un grande progetto teso al Censimento di tutte le specie vegetali e animali presenti in Italia, e finanziando il recupero e la rimessa in produzione di quelle biodiversità in via di estinzione.
Produttori e consumatori scelgono l’agricoltura di qualità
In Italia resta fermo il divieto agli Ogm. Vuol dire che nel nostro Paese è proibito coltivare prodotti transgenici. Un divieto che, tra l’altro, rispetta la posizione della stragrande maggioranza della popolazione. Secondo un’indagine Cia, infatti, ben otto consumatori su dieci non vogliono Ogm nel piatto. In particolare, il 55 per cento degli intervistati ritiene gli organismi geneticamente modificati dannosi per la salute, mentre il 76 per cento crede semplicemente che siano meno salutari di quelli normali.
Anche la Cia e i Vas restano assolutamente contrari. «Ma il nostro “no” – spiegano le due organizzazioni – non è ideologico, si basa su considerazioni di buon senso. In primo luogo vale il “principio di precauzione” a tutela dei consumatori: esistendo indizi di potenziali rischi per l’ambiente e la salute umana e animale, e non essendoci dall’altro lato un’evidenza scientifica provata della loro “non pericolosità”, prevale il senso di prudenza rispetto al loro impiego.
«L’altro aspetto fondamentale riguarda la nostra agricoltura. In Italia – ricordano Cia e Vas – ci sono più di 500 prodotti Doc e Igp e una rete molta estesa di siti protetti a vario titolo. Come si può conciliare e difendere questa tipicità e il riconoscimento di patrimonio dell’umanità dato dall’Unesco alla dieta mediterranea aprendo a colture geneticamente modificate? Gli Ogm tendono all’omologazione, mentre il “made in Italy” agroalimentare vince sui mercati stranieri proprio grazie alla diversificazione produttiva. In più anche dal punto di vista territoriale l’Ogm non conviene: nel nostro paese la proprietà agricola è molto frammentata, con una grandezza media di 7,9 ettari contro i 240 degli Stati Uniti (che producono da soli il 43% degli Ogm). Imporre in Italia la coltivazione di organismi geneticamente modificati significherebbe creare un sistema costoso e inutile, una doppia filiera che non è neppure conveniente economicamente. Inoltre, considerando morfologia e dimensioni delle aziende agricole, sarebbe molto difficile evitare “contaminazioni” delle colture. Tra l’altro, le uniche varietà presenti sul mercato sono soia (47% del totale), mais (32%), cotone (15%), colza (5%) con solo due caratteristiche: la resistenza agli erbicidi e agli insetti. Infatti, le varietà resistenti agli erbicidi rappresentano il 59 per cento (con 93 milioni di ettari coltivati), quelle resistenti agli insetti il 15 per cento (con 23 milioni di ettari coltivati) e quelle con i due caratteri combinati il 26 per cento (con 42 milioni di ettari coltivati). Insomma, il tutto sembra proprio non essere indispensabile per il nostro modello agricolo».
Più che negli investimenti sui prodotti transgenici – proseguono Cia e Vas, siamo convinti che il futuro passi per un’agricoltura sostenibile: alimenti sicuri e salvaguardia della biodiversità, che è tutela del nostro patrimonio vegetale e animale. E la biodiversità è assolutamente incompatibile con la presenza di Ogm.
Allargando il campo e uscendo fuori dai confini nazionali, nel 2011 ben 160 milioni di ettari di terreno in 20 Paesi del mondo (di cui 18 in via di sviluppo) sono stati dedicati a colture biotech con il coinvolgimento di 16,7 milioni di agricoltori. Al primo posto nella graduatoria dei maggiori produttori figurano ancora gli Stati Uniti, con 69 milioni di ettari coltivati ad Ogm, seguiti da Brasile (30,3 milioni di ettari), Argentina (23,7 milioni di ettari) e India (10,6 milioni di ettari).
Diversa la situazione in Europa, puntualizzano Cia e Vas, dove anche quei paesi che in passato hanno puntato sugli Ogm oggi mettono un freno, complice la diffusa opposizione dei cittadini e le crescenti preoccupazioni di carattere ambientale. Non è un caso che negli ultimi anni la superficie europea dedicata a questi prodotti si sta progressivamente riducendo fino ai 114mila ettari del 2011 (su circa 179 milioni di ettari di Sau). Vuol dire appena lo 0,06% dell’intero territorio agricolo in Ue.
La stessa Basf proprio recentemente ha annunciato di voler sospendere le attività di ricerca relative alle biotecnologie vegetali in Europa e di fermare la commercializzazione della patata «Amflora», presente esclusivamente in Germania, Svezia e Repubblica Ceca (nella foto del titolo, N.d.R.). Preso atto con un’indagine ad hoc che la maggior parte dei cittadini Ue dicono «no» a cibi geneticamente modificati, la Basf ha dichiarato ufficialmente che concentrerà la ricerca e la commercializzazione di questi prodotti solo negli Stati Uniti, da sempre meno ostili alle coltivazioni transgeniche.
Una serie di «miracoli» mancati
L’ultimo in ordine di tempo è l’hamburger in provetta. Nell’idea dei ricercatori a breve si potrà produrre su scala industriale al «modico prezzo» di 250mila euro a porzione. Finora però la fettina più grande ottenuta dalle staminali bovine ha uno spessore di tre millimetri, è lunga tre centimetri e larga uno e mezzo: per ricavarne un solo hamburger ne occorrono tremila, più un altro centinaio di tessuto adiposo. E tutto questo per una polpetta dal colorito giallo-rosato e dal sapore insipido. Di esempi del genere, da quindici anni a questa parte, sottolineano Cia e Vas, ne abbiamo sentiti molti: dal salmone a crescita rapida «Aquadvantage», a Peng Peng, la pecora ricca di Omega 3, fino alla mucca cinese che produce latte umano. Una galleria grottesca di esperimenti biotech che, tra cibi transgenici e animali clonati, mostra efficienze terribilmente basse, costi esorbitanti, oltre a un indice di gradimento ai minimi termini tra i cittadini europei.
Ancora oggi, infatti, per quanto riguarda la clonazione, gli esperimenti riusciti con successo non superano il 5 per cento e l’aspettativa di vita dei cloni è estremamente bassa. La maggior parte muore prima di diventare economicamente produttiva e chi sopravvive all’età giovanile di solito è particolarmente soggetto a malformazioni, tumori e infezioni. Da qui le serie perplessità sull’ingresso dei loro derivati nella catena alimentare. L’errore di fondo, sostengono le due organizzazioni, è quello di chiedere alla biotecnologia di fare miracoli, rischiando poi di ritrovarsi nel piatto derivati di esperimenti malriusciti. Rinunciando così alla condizione essenziale della sicurezza alimentare, cioè la certezza della salubrità della materia prima del cibo che finisce in tavola.
Per non parlare del capitolo costi. Proprio dagli Stati Uniti, la roccaforte delle sperimentazioni biotech, vengono le analisi economiche più pessimiste su un possibile mercato dei cibi prodotti in laboratorio. È il Center for food safety, osservano Cia e Vas, a sostenere che, nonostante l’atteggiamento della Fda (Food and drug administration), che nel 2008 ha approvato la Scnt come tecnica di produzione di alimenti animali, per molto tempo sarà difficile trovare carni clonate anche nei supermarket statunitensi, per il fatto che i costi di produzione sono di gran lunga superiori a quelli necessari per produrre animali convenzionali.
Ma anche se la sperimentazione venisse affinata massimizzandone i risultati e riducendone i costi, resterebbe comunque il fatto che i consumatori, in primis quelli europei, si rifiuterebbero di acquistarli, visto che ben il 77 per cento dei cittadini (dati Eurobarometro) oggi dice «no» all’uso di animali clonati a scopo alimentare. In tal senso si commenta da sola la decisione di bloccare gli esperimenti su «Enviropig», il maialino ecologico che avrebbe dovuto risolvere i problemi ambientali dei grandi allevamenti industriali: «Ontario Pork», l’associazione di allevatori prima finanziatrice dell’esperimento dell’Università di Guelph (Canada), dopo più di 15 anni ha ammesso che il progetto non è ha più senso, mancando un mercato disponibile ad acquistare le cotolette di maiale biotech.
(Fonte Confederazione italiana agricoltori)