Buona parte della provincia di Taranto ed almeno la parte sud di quella di Bari (con i comuni di Gioia del Colle, Noci e Santeramo tra i più colpiti) si trovano ad occupare la poco invidiabile posizione di «aree di ricaduta polveri sottili»
Le recenti vicende giudiziarie che hanno visto coinvolto il polo siderurgico di Taranto hanno riportato l’attenzione dell’opinione pubblica sull’impatto ambientale dell’industria pesante italiana.
L’Ilva non è nuova agli onori della cronaca ed è stata spesso al centro delle polemiche riguardanti gli incidenti e le morti bianche sul luogo di lavoro. Ciò che è passato più inosservato negli ultimi anni è, però, l’eccidio silenzioso di centinaia di tarantini ed abitanti delle aree limitrofe alle ciminiere. La recente conferma del sequestro degli impianti per «disastro ambientale» da parte del gip Patrizia Todisco è soltanto l’apice di una vicenda che per troppo tempo ha sofferto di omertà e ricatti.
È ben noto, infatti, da molti anni che i livelli di neoplasie e leucemie che colpiscono gli abitanti delle aree intorno all’Ilva ed agli stabilimenti petroliferi di Taranto risultano di gran lunga superiori rispetto a quelli della media nazionale1. Polveri rosse si accumulano sui balconi e le auto del quartiere Tamburi, ma ciò che dovrebbe ancor più preoccupare viene spesso ignorato dai media. Le polveri sottili (con diametro inferiore ai 5-10 nanometri) sono invisibili all’occhio umano e possono volare per lunghissime distanze sospinte dai venti dominanti.
Recenti studi hanno dimostrato che le polveri del deserto del Sahara raggiungono in poche settimane le foreste del bacino amazzone, al di là dell’Oceano Atlantico. Figurarsi, dunque, dove possono giungere le nanopolveri emesse dalle ciminiere dell’Ilva che processano materiali ferrosi, i quali vengono spesso trattati con sostanze altamente inquinanti come mercurio, nichel e cadmio e frammentate, fuse, riassemblate con notevoli perdite nell’ambiente.
Buona parte della provincia di Taranto (con i comuni di Laterza, Castellaneta, Mottola e Massafra in primis, dove già incide l’inquinamento dell’inceneritore di Cdu realizzato di recente) ed almeno la parte sud di quella di Bari (con i comuni di Gioia del Colle, Noci e Santeramo tra i più colpiti) si trovano ad occupare la poco invidiabile posizione di «aree di ricaduta polveri sottili». In altri termini, se è vero che la città di Taranto, oltre al vergognoso primato di città più inquinata d’Europa, è il sito di deposito delle polveri macroscopiche ferrose, capaci di provocare sindromi polmonari acute, displasie e tumori, non certo possono tirare una boccata d’aria fresca tutti i cittadini dei territori che sorgono in un raggio di almeno 100-150 km a nord-ovest (direzione dominante del vento di Scirocco da sud-est che spira per il 65% circa dei giorni in un anno nella zona) del polo tarantino.
Proprio di recente è stata registrata nelle aree rurali circostanti all’Ilva un incremento notevole negli ultimi 20 anni di tumori maligni, soprattutto a carico dell’apparato respiratorio e del sistema digerente. Se le patologie polmonari trovano una diretta spiegazione nell’inalazione di microparticelle, diossine, furani e composti organici volatili provenienti dall’area industriale, più difficile sembra il collegamento con altri tipi di tumore. In realtà, appare emergere da recenti indagini di vari enti ed organizzazioni operanti sul territorio pugliese che i livelli di contaminazione del siero caseario (e, quindi, del latte bovino) ed olio d’oliva in alcune zone della provincia di Taranto e Bari supera i limiti imposti dalle leggi sanitarie in materia.2
Il collegamento è presto fatto: sostanze potenzialmente cancerogene (ad es. diossine e polveri sottili) che fuoriescono dalle ciminiere dell’Ilva e delle altre aziende presenti nell’area industriale di Taranto potrebbero spandersi a distanze notevoli diffondendosi a maglia tra le due provincie di Bari e Taranto e contaminare le colture cerealicole ed olivicole. Poiché i composti inquinanti industriali hanno una struttura liposolubile (capace, cioè, non solo di sciogliersi nei grassi, ma anche di passare la barriera cellulare lipidica e modificare direttamente il Dna), è probabile che l’elevata quantità presente nei suoli di ricaduta dei fumi e delle polveri possa finire, attraverso la catena alimentare, nel grasso latte vaccino ed all’interno delle olive (ricche di grassi vegetali, gli oli appunto). Questa eventualità, spesso passata inosservata e ricordata solo in casi eclatanti come la «mozzarella alla diossina campana», è invece un pericolo assai comune ed uno dei più gravi potenziali effetti collaterali dei molti anni di inquinamento atmosferico provocato dall’Ilva.
Se a tutto questo si aggiunge la contaminazione idrica dovuta allo scarico sia di acque di raffreddamento nei corsi d’acqua ed in mare, sia di un sistema di depurazione che non può rimuovere le ingenti quantità di metalli pesanti di risulta dei processi industriali, si ottiene un quadro ancor più desolante e completo di quanto passato nei molti speciali dedicati da tv e giornali nazionali.
L’assurdità della vicenda sta nel fatto che soltanto l’azione di magistrati coraggiosi, nonostante gli anni di battaglia delle associazioni ambientaliste e di molti cittadini di Taranto e dintorni, è riuscita ad aprire un dibattito su un’azienda che per anni ha operato indisturbata avvelenando un territorio meraviglioso come quello del golfo ionico e dell’entroterra barese. Il vergognoso della vicenda, invece, è che partiti politici che da sempre hanno volontariamente ignorato la problematica e non sono mai stati interessati alle vicende ambientali del Paese si ritrovino oggi a contestare le decisioni dei giudici rei, a loro dire, di minacciare la già precaria situazione economica e lavorativa del paese.
Ancora una volta, come ai tempi delle miniere (tempi che non sono mai finiti, ma sono stati semplicemente posposti in altre aree più povere del Mondo), il ricatto del lavoro prevale sulla tutela della salute e dell’ambiente.
Lo stesso Governo, capitanato dal molto poco ambientalista ministro dell’Ambiente Corrado Clini, si è schierato in prima linea contro la magistratura criticando la brutalità dell’intervento e la chiusura degli impianti. D’altra parte da un Ministro ed un Capo di Governo che, ancora, nonostante le evidenze del fallimento del modello di sviluppo economico-capitalista invocano crescita e consumi per uscire dalla crisi, non ci si poteva che aspettare simili affermazioni ed azioni. Ci si potrebbe attendere addirittura che il ministero dell’Ambiente italiano inizi uno sciopero bianco sino alla riapertura degli inquinanti reparti siderurgici. Questa presa di posizione del Governo ben poco lungimirante e tipica degli economisti che antepongono il profitto a tutto il resto, è l’aspetto più inquietante della vicenda. Tra le motivazioni del sequestro, infatti, vi è la reiterata inazione dell’azienda al risanamento ed alla bonifica delle aree inquinate oltre all’assenza di interventi per limitare le emissioni inquinanti degli impianti, negli ultimi dieci anni. Anni in cui l’attuale ministro Clini era direttore della divisione competete del ministero dell’Ambiente e non risulta che all’epoca si sia tanto scandalizzato del disastro ambientale in corso a Taranto.
È ovviamente sacrosanto tutelare i diritti dei lavoratori ed è l’azienda a doverlo fare. Basta ricordare che la normativa europea e le successive leggi italiane prevedono che spetti alle aziende inquinanti il risanamento con bonifica delle aree inquinate, il risarcimento dei danni alle persone colpite e per l’inquinamento causato ed è, pertanto, l’Ilva a dover coprire le spese per gli stipendi dei dipendenti attualmente senza lavoro, che per anni hanno subito in prima persona e sui propri famigliari i danni delle emissioni nocive.
L’Ilva dovrebbe risarcire i lavoratori dei danni subiti e potrebbe impiegarli, pagando ovviamente il loro stipendio, per le operazioni di bonifica degli impianti. Allo stesso tempo dovrebbe essere categorico e non opinabile, come assurge la classe dirigente del Paese, che gli impianti debbano restare chiusi sino alla totale bonifica (semmai questa fosse davvero possibile) e dovrebbero riaprire soltanto ad avvenuto adeguamento per limitare al minimo l’inquinamento.
Questo ennesimo capitolo di devastazione dell’ambiente naturale e diniego della salute umana quale bene primario da tutelare, dimostra ancora una volta quanto l’aspetto economico sia dissociato da quello ecologico. Soltanto assicurando il mantenimento dell’ambiente naturale, e quindi anche della salute umana, si possono garantire adeguate condizioni di lavoro che migliorino la vita di tutti.
L’ossessione per la crescita, proposta da ignoranti e ciechi economisti ortodossi, sta portando alla riduzione della considerazione del lavoratore, del cittadino e dell’ambiente naturale a semplici beni di consumo per raggiungere l’obiettivo orbo dello sviluppo. Dove porti questo sviluppo nessuno lo sa.
Forse, per una volta, Taranto ha da insegnare qualcosa all’Europa che non sia un nuovo limite di inquinamento da superare: la spinta alla crescita basata solo sugli interessi economici e di profitto, che prevaricano la salute delle popolazioni e minacciano l’ambiente, porta inevitabilmente allo scontro finale, dove tutti ne escono perdenti. La capitale ionica dell’antica Grecia rischia in un colpo solo di perdere migliaia di posti di lavoro ed una delle più grandi aziende del paese.
Ciò che ha già perso, d’altronde, non può giustificare l’apertura forzata di impianti che continueranno ad inquinare indisturbati come fatto negli ultimi vent’anni. Ciò che ha perso è la vita dei malati di tumore al colon ed ai polmoni, dei bambini prematuramente scomparsi per leucemia, degli operai travolti dall’abominevole furia della produzione e la natura, che ai tempi della Magna Grecia faceva di Taranto e dintorni un vanto per l’intero regno ellenico, e che ora è ridotta ad un cumulo di polvere rossa a ricoprire pallidi ulivi ed aridi pascoli.
1 Secondo uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato sulla rivista Epidemiologia e Prevenzione si registra nell’area del tarantino un «eccesso di circa il 30% nella mortalità per tumore del polmone, per entrambi i generi, un eccesso compreso tra il 50% (uomini) e il 40% (donne) di decessi per malattie respiratorie acute».
2 A tal proposito, una buona base d’indagine scientifica, per dimostrare una volta per tutte il collegamento diretto tra emissioni dell’impianto ed inquinamento ambientale, sarebbe l’avvio di un’indagine sotto forma di questionario per i cittadini da parte delle associazioni interessate. Si potrebbero consegnare formulari con domande specifiche sullo stato di salute dei componenti di ogni famiglia e dei casi di inquinamento riscontrati, a gruppi selezionati di persone che risiedono in aree dal raggio sempre più ampio rispetto all’Ilva (ad es. a 10-20-40-50-70-10 km di distanza dagli impianti) e valutare la variazione statistica di neoplasie, leucemie, sindromi polmonari incidenti sulla popolazione, correlandole alla distanza dall’industria ed agli effetti sull’ambiente, es. qualità del siero caseario e dell’olio d’oliva.
Roberto Cazzolla Gatti, Biologo ambientale ed evolutivo