Oggi specie estinte come ai tempi dei dinosauri

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L’accelerazione in atto avrà un impatto anche su purificazione dell’acqua e dell’aria, impollinazione delle piante ad uso agricolo, produzione di biomasse… che sono imprescindibili per la vita dell’uomo. Il loro valore economico è di 33 trilioni di dollari all’anno. Se gli ecosistemi non fossero più in grado di fornirli, l’economia mondiale finirebbe in ginocchio molto più di quanto non sia possibile con qualsiasi crisi finanziaria

Gli sforzi internazionali per interrompere l’estinzione di massa di specie per cause imputabili all’uomo possono contare ora su una struttura di riferimento: l’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes). Un gruppo di ricerca dell’Università di Roma «La Sapienza» partecipa al progetto.

Per approfondire l’argomento abbiamo intervistato il Carlo Rondinini, ricercatore in Zoologia presso il dipartimento di Biologia e Biotecnologie dell’Università di Roma «La Sapienza». Carlo Rondinini dal 2000 si occupa di identificazione di priorità globali per la conservazione della biodiversità e attualmente coordina il programma di ricerca Global Mammal Assessment (Gma), che valuta il rischio di estinzione di tutti i mammiferi marini e terrestri per la Red List Iucn of Threatened Species.

In che cosa consiste la struttura Gma, quali sono i compiti del programma, quali le risposte che la struttura fornisce per ampliare le conoscenze a livello nazionale e internazionale e quali le strategie lavorate dal programma Gma?

La struttura di riferimento del Gma è la Red List Iucn, che elabora la più grande banca dati globale sul rischio di estinzione delle specie a scala globale. Ad oggi la Red List ha valutato oltre 60.000 specie, inclusi tutti i mammiferi, gli anfibi, gli uccelli, oltre a molti altri vertebrati, invertebrati e piante. Dato che la velocità con cui l’uomo converte gli ambienti naturali in aree agricole ed urbane è in continuo aumento, e come risultato le popolazioni di moltissime specie sono in declino, queste valutazioni necessitano di un aggiornamento periodico. Il Gma è responsabile dell’aggiornamento periodico della valutazione del rischio di estinzione di tutte le circa 5.600 specie di mammiferi note alla scienza. Per portare a termine questo compito, coordina un gruppo di circa 5.000 specialisti (riuniti in 35 Specialist Groups) che studiano i diversi gruppi di mammiferi nelle varie aree geografiche del mondo. L’ultima valutazione risale al 2008 e la prossima valutazione globale è prevista entro la fine del 2015.

In che modo la struttura Gma può contribuire all’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes), una piattaforma intergovernativa di esperti sulla biodiversità, nata su iniziativa delle Nazioni Unite a cui partecipano delegati di governi, centri di ricerca e associazioni non governative?

Il Gma opera a diversi livelli per fornire ad Ipbes informazioni aggiornate sullo stato di conservazione della biodiversità. Le nuove valutazioni del rischio di estinzione dei mammiferi attese per il 2015 saranno utilizzate per calcolare un indice aggiornato della velocità di declino della biodiversità detto Red List Index, che si basa sul numero delle specie che si avvicina all’estinzione o se ne allontana nel corso del tempo. Questo indice servirà anche a rispondere a uno degli obiettivi del Millennium Development Goal 2015 delle Nazioni Unite. In aggiunta, il Gma sta utilizzando scenari di cambiamento climatico e di cambiamento dell’uso del suolo per proiettare il Red List Index al 2080 e fornire così una base scientifica per le decisioni che Ipbes potrà supportare sui temi di mitigazione dell’impatto umano sugli ambienti naturali. I primi risultati delle proiezioni sono stati presentati alla fine di Agosto nell’ambito della Conferenza europea di Biologia della Conservazione a Glasgow, nel simposio organizzato dai ricercatori Gma dal titolo «Global biodiversity scenarios to inform environmental policies».

A livello nazionale e internazionale quali sono, ad oggi, le conoscenze, in essere o comunque in fase di studio, e le possibili risoluzioni alla questione «perdita di biodiversità»?

Sappiamo che il 25% delle specie finora valutate (una piccola frazione del totale se consideriamo che nel mondo si stima vi siano circa 10 milioni di specie, la maggior parte delle quali ancora sconosciute alla scienza) è a grave rischio di estinzione nel breve o medio termine, con popolazioni ridotte a poche migliaia di individui o in crollo vertiginoso. Sappiamo anche che la tendenza passata mostra una accelerazione di questo processo negli ultimi decenni. Questo avrà sicuramente un impatto, non ancora del tutto compreso, anche sui servizi ecosistemici (purificazione dell’acqua e dell’aria, impollinazione delle piante ad uso agricolo, produzione di biomasse etc.), che sono imprescindibili per supportare la vita dell’uomo sulla Terra. Sebbene ancora largamente ignorati dagli economisti, il valore economico di questi servizi è stato stimato in 33 trilioni di dollari all’anno. Questo significa che se gli ecosistemi non fossero più in grado di fornirli, perché troppo degradati, l’economia mondiale finirebbe in ginocchio molto più di quanto non sia possibile con qualsiasi crisi finanziaria o recessione, come quella che stiamo vivendo ora. Sarebbe con ogni probabilità la fine del mondo così come lo conosciamo.

In che termini i cambiamenti climatici vanno ad incidere sulla perdita di biodiversità? Quali altri aspetti ambientali sono concausa di tale perdita?

I cambiamenti climatici saranno con ogni probabilità una causa importante di perdita di biodiversità nel lungo termine. Anche se in questo campo i modelli previsionali sono sempre più abbondanti, almeno a scala locale, è ancora molto difficile prevedere cosa succederà veramente. Questo dipenderà alla fine dalla adattabilità delle specie, che potrebbe anche essere superiore a quel che crediamo, e dalla possibilità di formazione di ecosistemi «nuovi». Certo, se tutto questo non avverrà raggiungeremo una soglia oltre la quale gli effetti potranno essere molto gravi. Al momento però il problema principale è la conversione di ambienti naturali (foreste, praterie, zone umide etc.) soprattutto in aree agricole. Gli effetti della perdita di habitat sono ben noti e molto gravi nell’immediato.

Concorrono a definire possibili politiche socio-economiche atte ad affrontare le gravi perdite di biodiversità e servizi ecosistemici, perdite che si stima saranno notevoli nei prossimi anni, la convergenza di modelli impiegati da ecologi, climatologi, geografi ed economisti. Quali punti di congruenza o, viceversa, di divergenza ricorrono tra tutti questi aspetti dello stesso problema che contribuiscono a creare una risposta comune al problema? Come l’aspetto economico-politico va ad incidere su temi più squisitamente scientifico-applicativi? Ad oggi è in essere un modello di politiche socio-economiche, a livello nazionale e internazionale, volto ad affrontare la grave perdita globale di biodiversità? E queste politiche, se presenti, risultano adeguate allo scenario esistente?

La causa ultima della pressione sui sistemi naturali e della perdita di biodiversità è senza alcun dubbio l’incremento esponenziale della popolazione umana dalla rivoluzione industriale in poi. La popolazione umana è decuplicata (e raddoppiata solo negli ultimi 40 anni) e, in aggiunta, il nostro consumo di risorse pro capite è aumentato. Ovviamente questo è insostenibile nel lungo termine perché le risorse che la Terra è in grado di fornirci sono invece limitate. La risposta vera all’emergenza che stiamo vivendo deve quindi essere sociale e politica (qualsiasi altra azione, inclusa la creazione di aree protette che pure sono così importanti per la conservazione della biodiversità, non può che essere un palliativo di breve termine per fermare estinzioni imminenti). Per rispondere a un problema globale servono strategie globali, e i paesi stanno iniziando a muoversi seppure tra molte incertezze. L’obiettivo della Convenzione sulla Diversità Biologica (Cbd) di ridurre la perdita di biodiversità entro il 2010 è stato fallito (la velocità con cui si perde biodiversità è aumentata) proprio per la mancanza di una strategia. Per questo sono stati realizzati di recente gli scenari di sviluppo socio-economico sostenibile di Rio+20, che prevedono tra l’altro una riduzione del consumo di carne (la cui produzione consuma enormi quantità di Terra) e un tetto alla crescita della popolazione umana. Questi scenari dovrebbero permettere la coesistenza tra le società umane sviluppate e le altre specie.

Alla luce di questo, cosa è stato fatto sino ad ora e cosa si propone di fare la struttura Ipbes nella determinazione di politiche volte alla conservazione della biodiversità?

È veramente molto difficile rispondere a questa domanda in quanto Ipbes è ancora in fase di formazione. Certamente la consorella, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), è stata fino ad ora molto influente nel trasmettere all’opinione pubblica i rischi sociali ed economici dei cambiamenti climatici (ma lo è stata molto meno nell’influenzare le politiche dei governi al riguardo). Nel 2013 ci sarà la riunione plenaria dell’Ipbes i cui report scientifici mireranno a guidare le politiche di prevenzione e mitigazione della perdita di biodiversità. Perché questi report abbiano una effettiva influenza sarà necessaria la massima risonanza mediatica.

In definitiva, cosa può essere ancora fatto e cosa si è ormai definitivamente perduto?

Negli ultimi secoli molte specie, soprattutto mammiferi, uccelli, anfibi, si sono estinte, con una velocità paragonabile a quella dell’estinzione di massa dei dinosauri. Un numero enormemente più alto ha subito massicce riduzioni di popolazione ed è scomparso da molte regioni del mondo dove prima era abbondante. Parte degli effetti dei cambiamenti del clima e della riduzione delle foreste saranno visibili solo nei prossimi decenni. È quello che viene definito debito di estinzione, che riguarda specie ridotte a un numero di individui così piccolo che non c’è più speranza di salvarle. Potrebbe essere il caso anche di specie simbolo, come la tigre, per la quale sembra non esserci più spazio in un mondo dominato dall’uomo. Per fortuna c’è però ancora molto da fare. Se saremo davvero in grado di cambiare i nostri costumi e stili di vita, riducendo la nostra impronta ecologica sull’ambiente, potremo ancora salvare molto di ciò che rimane. Le nostre proiezioni dimostrano che, almeno per i grandi mammiferi (carnivori e ungulati), gli scenari ecosostenibili di Rio+20 rallentano in modo sostanziale il declino. Saranno necessari altri studi per capire se questo si applica anche ad altre specie, ma si tratta di una prima indicazione che potrebbe dimostrare che, con la giusta volontà politica, la coesistenza tra l’uomo e il pianeta in cui vive è ancora possibile.