Dovrebbero essere all’incirca 600.000 mentre ne risultano censiti solo all’incirca 130.000. L’educazione alla salute, così come l’educazione alla malattia (o alla propria specifica condizione, diversa da quanto succede nei più), richiedono occhi svegli ma anche mente aperta
Questa rubrica è dedicata alla salute ed a tutto il mondo che gira attorno ad essa. Poche parole, pensieri al volo, qualche provocazione, insomma «pillole» non sempre convenzionali. L’autore è Carlo Casamassima, medico e gastroenterologo, ecologista nonché collaboratore di «Villaggio Globale». Chi è interessato può interagire ponendo domande.
I celiaci non tollerano la frazione gliadinica del glutine che è contenuta nel frumento, nell’orzo, nella segale, nel kamut e nel farro nonché in tutti gli alimenti «contaminati» da quella proteina. Il risultato è una anomala azione tossica del glutine contro le pareti dell’intestino tenue con conseguenze cliniche molto variabili: da una condizione di lieve anemia ad un quadro di grave denutrizione (per mancato assorbimento dei principi nutrizionali da parte dell’intestino danneggiato) sino alla comparsa di neoplasie dell’apparato digerente.
Basta eliminare dalla dieta il glutine (utilizzando alimenti altrettanto gustosi e nutrienti) per evitare in modo sicuro e definitivo ogni tipo di problema legato alla malattia (ma sarebbe meglio parlare di una condizione biologica perché senza l’esposizione alla gliadina queste persone vivono benissimo).
Mentre in passato si riteneva che la sprue celiaca (un altro nome con il quale la celiachia è indicata) fosse rara attualmente si è compreso che la sua prevalenza statistica è ragionevolmente attestata sull’1% della popolazione. In Italia, cioè, ci dovrebbero essere (e probabilmente ci sono) all’incirca 600.000 celiaci mentre ne risultano censiti (cioè diagnosticati e gestiti correttamente con appropriata alimentazione) solo all’incirca 130.000. E allora? Perché i conti non tornano?
Non tornano per due sostanziali motivi. Da un lato, per la pigrizia di un po’ di medici che non pensano all’ipotesi della celiachia nel momento in cui devono far sottoporre i propri assistiti (specie i bambini) ad esami di routine o a controlli in corso di patologie. Dall’altro, per l’atteggiamento immotivatamente timoroso di alcune persone e di alcuni genitori che rifiutano psicologicamente per sé o per il proprio figlio l’idea di una «patologia» che duri tutta la vita. Certo, è strano e si fa fatica a pensarlo, in un’epoca nella quale la preoccupazione per le malattie costituisce senza dubbio una costante assoluta. Il problema è che per scoprire una situazione di questo tipo (spessissimo caratterizzata da insignificanti segni clinici, almeno sino a che non compaiono complicanze più importanti) bisogna abituarsi all’idea ed all’ipotesi di «non star bene» anche quando sembra si stia molto bene. L’educazione alla salute, così come l’educazione alla malattia (o alla propria specifica condizione, diversa da quanto succede nei più), richiedono occhi svegli ma anche mente aperta.