Sostenibilità, un concetto per quali applicazioni?

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La sostenibilità è un concetto che, al di là dei significati e dei pesi arbitrariamente attribuiti, potrebbe far sottintendere l’esistenza di un limite minimo condiviso entro il quale sono garantite almeno condizioni di sopravvivenza, che sono, però, quelle stesse che diventano del tutto insufficienti ad affrontare situazioni più complesse (esaurimento di risorse naturali, cambiamenti economici epocali come quelli imposti dalla globalizzazione, conseguenze dei cambiamenti climatici, crisi politiche internazionali, epidemie e carestie) e che richiedono concreti e costosi interventi e solidarietà umane. Oggi, nonostante l’abbondante disponibilità di strumenti economici e logistici, che possono essere impiegati per provvedere alle emergenze e alla messa in sicurezza di popolazioni e territori, gli interventi e la solidarietà sono tragicamente insufficienti anche perché, non di rado, si trasformano in devianti opportunità per cinici e loschi affari.
In Africa, molte popolazioni, già di per sé povere da sempre, hanno perso, oggi, quell’autonomia con la quale, nonostante tutto, hanno affrontato e superato le crisi, con costi relativamente sopportabili, fino agli anni iniziali della rivoluzione industriale nei paesi occidentali. Negli anni successivi le condizioni di vita di queste popolazioni sono sempre più peggiorate. Oggi in Africa molte etnie (che sono state dotate di armi tradizionali, ma anche di altri strumenti di morte più sofisticati) vivono in continuo conflitto fra loro, nel terrore delle stragi e sotto governi militari. Non avendo più un’economia di relazioni e di scambio, alla quale fare riferimento, queste popolazioni si trovano in condizioni fisicamente non sostenibili di sopravvivenza che migliorano, in parte, solo se ricevono aiuti alimentari (che purtroppo sono accompagnati da «aiuti» anche militari). Nei loro confronti è attuata una pressione che sembra giocare fra disponibilità di aiuti umanitari e sottomissioni ai poteri militari. Una condizione forse preordinata e che, comunque, li costringe a sopravvivenze del tutto precarie e funzionali, di fatto, a non creare ostacoli all’accesso, senza controllo, alle loro risorse naturali da parte di chiunque e a qualsiasi titolo, sia interessato a procurarsele. È una situazione che permane e pesa, senza sosta e ingiustamente, su molte popolazioni e che, nonostante le ricorrenti, ma poi tradite intenzioni a livello internazionale, si presenta come un destino immutabile (certamente non imposto da qualche particolare e sfavorevole congiunzione astrale).
Ma che cosa è la sostenibilità se, poi, come in questi casi, non si riesce a declinarla neanche nei termini, già equivoci, di una sopravvivenza (concessa, a modo loro, dai poteri che sono padroni delle cose del mondo) e se viene, addirittura, sospettosamente considerata incompatibile con la «missione liberista» di fare e accumulare denaro?
Ancora oggi, fa presa quella convinzione che far fruttare i talenti, richiamati in una parabola del Vangelo, non sia una metafora (che invita a rispondere responsabilmente alle proprie vocazioni e a utilizzare e favorire fenomeni vitali senza temere di perdere qualcosa), ma un undicesimo comandamento che obbligherebbe al «bene» di fare e accumulare propri profitti (oggi una metafora più aderente alla nostra realtà è quella del potere, che il re Mida aveva ricevuto, di trasformare in oro tutto ciò che toccava: un potere che porta ad una sicura morte perché, nonostante le ricchezze che si possono creare e accumulare, non permette in alcun modo di assumere il cibo necessario per vivere).
Sono molti quelli che si lasciano affascinare dall’idea che fare denaro sommarlo e moltiplicarlo sia la prova provata della propria e totale adesione ad una volontà divina dalla quale si può, così, formalmente pretendere la meritata e giusta ricompensa della felicità eterna, in un’altra vita. Ma ad un’analisi meno eretica, quegli stessi uomini così attenti e operosi, si presentano solo come entusiasti sostenitori di una personale e decontestualizzata visione della realtà, come interpreti irresponsabili della propria demenziale determinazione a sottomettere il mondo agli ingenui meccanismi delle povere verità e delle banalità ideologiche del liberismo (sostanzialmente privo di «qualità relazionali» solidali e sinergiche e di «vocazioni sociali», che non sono, certamente, quelle del fare profitti saccheggiando beni comuni).
Ma se la sostenibilità non è neanche un presidio a garanzia della nostra sopravvivenza, possiamo, almeno immaginarla come strumento e misura di comparazione relativa, fra prospettive diverse di sostenibilità alternative messe a confronto, per scegliere, almeno, le condizioni più sostenibili? Possiamo chiederci: sostenibile, ma rispetto a che cosa? Per esempio, possiamo comparare la sostenibilità, in un dato territorio, di attività agricole rispetto ad attività commerciali o industriali o rispetto a destinazioni residenziali o per il tempo libero?
In questo caso possiamo effettuare analisi economiche (Analisi Costo Benefici) e finanziarie (quantità, condizioni e fonti di questa risorsa), possiamo valutare gli impatti (non solo sul contesto biofisico, ma anche sul piano della gradibilità, ricevuta dalle valutazioni e dalle proposte esaminate con una popolazione coinvolta anche nei processi decisionali), possiamo progettare eventuali opere di mitigazione degli effetti, ritenuti rilevanti ma non valutati nel progetto iniziale. Si può così disporre effettivamente di riferimenti significativi (forniti dalla comparazione della sostenibilità secondo le diverse prospettive messe a confronto) sicuramente utili per le migliori scelte.
Ma la sola comparazione meccanica non è sufficiente perché può essere impostata anche unilateralmente, come di fatto già avviene attualmente, per la valutazione della sostenibilità di un’attività rispetto ad un riferimento considerato, però, assoluto. Oggi, infatti, valutiamo ogni cosa non con una comparazione in un panorama di prospettive diverse e tutte confutabili, ma partendo da visioni dogmatiche di riferimento, imposte dalla globalizzazione, dall’ideologia liberista e, ancor peggio, da un opaco liberismo reale (che agisce sotto la sua ombra). Visioni e procedure, assolute e perentorie, che non possiamo in alcun modo modulare per rivederle e variarle nelle loro finalità e obiettivi. Così, l’opaco liberismo reale, non solo non dà conto del proprio operare, ma precostituisce, a proprio vantaggio, le scelte politiche di nazione o di interi continenti e decide anche i criteri di misura delle compatibilità solo in rapporto alle proprie esigenze e prospettive senza tener conto delle possibili alternative. Può avvenire, allora, come avviene, che il welfare diventi «semplicemente» insostenibile («non ce lo possiamo permettere») perché rischia di entrare in conflitto con il sistema liberista che gestisce le risorse a fine di lucro e non certo per un benessere che non sia un consumo o comunque che non procuri profitti. Avverrà così che il risparmio (se non seguirà la regola, secondo la quale «i soldi si fanno e non si risparmiano») sarà vanificato ed esposto, senza sicurezza dai rischi, al «gratta e vinci» della speculazione finanziaria che arricchisce, molto, i pochi «fortunati» che sottraggono risorse ai molti inducendoli (in nome della difesa dei loro risparmi) a sperare in improbabili profitti. Questa non è, certamente, una storia nuova: la racconta anche Collodi nel suo Pinocchio convinto dal gatto e dalla volpe a seminare i suoi soldi per farli crescere in maggiori quantità come frutti di un prodigioso albero dei soldi.