Il mandarino tardivo di Ciaculli

729
Tempo di lettura: 2 minuti

Un libro che narra la nascita e la morte di uno scenario paesaggistico tra i più sensazionali, ormai violentato nel profondo dall’ingordigia dell’uomo: cemento su cemento, senza sosta alcuna, né logica che regoli il tutto con un accenno di rigore, assennatezza e sistematicità

La Conca d’oro è la pianura sulla quale si sdraia sensuale e sonnacchiosa la città di Palermo. Una porzione di paradiso incastonata tra i monti ed il Mar Tirreno, sul quale si specchia la realtà palermitana. Una superficie di circa cento chilometri quadrati un tempo interamente coltivata ad agrumeto. Da qui il nome della landa che rievoca la tipica colorazione dei frutti riecheggianti il dorato.
Il territorio, purtroppo, ha subito negli ultimi decenni trasformazioni profonde, assai invasive, sotto la spinta di un’espansione urbanistica incontrollata, passata alla storia come il furioso «Sacco di Palermo».
Esiste, però, un’area della pianura dove ancora regge la coltivazione del «Mandarino tardivo di Ciaculli»; un’oasi di tradizioni agricole dall’inconfondibile sapore antico è quella delle borgate di campagna di Ciaculli e Croceverde-Giardina, entrambe località del comune di Palermo.
Il frutto che ne deriva è un gioiello di delizia per il palato molto richiesto all’estero, ma davvero poco conosciuto in Italia.
Così poco noto, da richiedere l’intervento degli esperti del settore: un famoso naturalista, Giuseppe Barbera, agronomo palermitano e professore di Colture arboree nell’Università di Palermo, con la «Conca d’oro» ci regala un altro tributo letterario alla sua storica passione per la natura (Sellerio ed. Palermo; 155 pagine; 12,00 euro).
Un libro che narra la nascita e la morte di uno scenario paesaggistico tra i più sensazionali, ormai violentato nel profondo dall’ingordigia dell’uomo: cemento su cemento, senza sosta alcuna, né logica che regoli il tutto con un accenno di rigore, assennatezza e sistematicità.
Un caos edilizio vorace ed insaziabile che ha deturpato irrimediabilmente porzioni cospicue di riserva naturale.
La Conca d’oro fu l’opera suprema del popolo palermitano, testardamente concepita e poi realizzata da mani contadine, innamorate della propria terra.
Una terra feconda, «laboratorio perenne di diversità biologica» che contiene tutta la generosità spontanea di un naturalismo genuino ed il ricordo nostalgico di una geografia del mondo quasi mitologica, a serio rischio di estinzione.
Una visione della vita intrisa di amore per la terra e del sudore di chi si ammazzava di fatica solo per veder nascere odorosi mandarini.