Il benessere del fare le cose e i limiti delle risorse naturali

473
Tempo di lettura: 3 minuti

Il benessere nel regime libero-mercatista si presenta come una condizione caratterizzata da una particolare capacità di consumo che vorrebbe vantare stili sofisticati di vita e che tende a monopolizzare, l’attenzione e la scena sociale, per imporre mode culturali formali, prive di contenuti.

Un riscontro immediato di questa condizione è offerto da specifiche rubriche che promuovono (per esempio, sulla carta stampata, con seducenti immagini, con significati fatti sottintendere ma inesistenti, con convinte note di costume e ardite argomentazioni socio-culturali) prodotti di consumo proposti come segni inequivocabili di benessere. È una moda che pervade, oggi e come un destino, tutta la cultura occidentale e sicuramente inibisce la ricerca di alternative, mentre facilita la rassegnazione ai dati di fatto e la sottomissione all’esistente, anche per le conseguenze, fatte intendere non piacevoli, di un eventuale cambiamento.
È una visione della realtà che interpreta, come semplice alterazione fisiologica, le pur diffuse e devastanti condizioni di marginalità nelle quali, tale modello di benessere, costringe ogni espressione di umanità e di ogni altro nostro legittimo interesse (in particolare a favore del progresso umano).

Una visione della realtà che, sulla rassicurazione di una società non toccata da temuti cambiamenti (garantita, in realtà, dal suo saldo confinamento in una vetrina ideologica che la protegge da ogni alterazione), presenta come naturali sia pratiche estreme di violenza (finalizzate all’acquisizione, necessaria per la produzione di surrogati del benessere, di mercati o di risorse naturali in ogni luogo del mondo), sia quelle ipocrisie che propongono, come salvezza di un’astratta e strumentale umanità, la paradossale sottomissione (fino alla soppressione) di uomini che, proprio di quella umanità, ne sono la reale e più concreta rappresentazione.
Se questa è l’idea di benessere, che sembra avere successo nelle nostre società, allora verrebbe voglia di chiedersi: «Ma che follia è questa?». È una domanda che, ancora oggi, sono in molti a non fare a se stessi ed è terribile che questo avvenga forse solo per la pigrizia, per la fatica o per le paure ingiustificate di trovarsi di fronte ad una risposta che comporti l’assunzione delle inoccultabili e ineludibili nostre responsabilità verso una realtà complessa della quale si finisce col diventare miserabili vittime invece di geniali collaboratori.

Il Club di Roma (con un rapporto pubblicato nel 1972) aveva previsto esiti a dir poco inquietanti sui limiti dello sviluppo, ma non aveva preso in considerazione quel peggio che avrebbe, purtroppo, reso «sostenibile» l’andare oltre quei limiti fisici dello sviluppo previsti quarant’anni fa. Lo stesso Club negli anni successivi riconobbe, con altre proiezioni, la sottovalutazione del contributo che avrebbero potuto dare le tecnologie, per immaginare un futuro meno drammatico. Ma, in questa occasione si era astenuto dall’indicarne i costi sociali, culturali, economici, politici e ambientali, forse, quasi considerando ovvio comprenderli in quel prezzo finale, non ben definito, delle scelte che l’uomo decide in ogni campo (come avviene per quel prezzo sociale, in termini di morti «caduti» nelle guerre e non solo, che di fatto non incide nei momenti della scelta di un intervento armato, per difesa o aggressione, condotto in nome di particolari e vantati interessi).
Dunque potremmo dire di aver superato, oggi, le condizioni che limitavano lo sviluppo, quello previsto nel secolo scorso, ma di non averne certamente affrontato i problemi e, quindi, di trovarci, oggi, di fronte a quel peggio (una costante della storia umana) al quale non sembra esserci mai fine e rimedio.

È, questa, una condizione di sofferenza esistenziale che non riusciremo a gestire se continueremo ad affidarci a un’idea di benessere che (come quella contrabbandata sulla spinta della ricostruzione postbellica ed esplosa, in Italia in particolare, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso) da bene socialmente vantaggioso, sembra, oggi, vivere nel dubbio che possa essere addirittura sostenibile, nell’attuale regime liberista, e sembra quasi destinata a perdere ogni suo significato pregnante.
Un’idea che, privata della sua sostanza, è diventata strumento meccanico di sviluppo del libero mercato, della crescita di consumi distruttivi, del degrado ambientale, del nostro impoverimento culturale e sociale, del declino della politica e della partecipazione attiva dei cittadini alla vita democratica, di adattamento, delle condizione di vita e di lavoro, alle esigenze competitive della produzione, dello sviluppo tecnologico e degli alienanti e distruttivi modi di fare profitti.