La natura e la gestione del benessere

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Ma dove si trova il benessere? Molti lo cercano e, nella concretezza del poterlo possedere come se fosse una merce offerta dal mercato globale, sono indotti a immaginare che sia da qualche parte del nostro mondo fisico (per esempio, in qualche paese tecnologicamente avanzato o nelle attese più libere e creative di un paese emergente o nei luoghi di qualche civiltà superiore). C’è chi è convinto di averlo già trovato e non accetta contaminazioni che possono essere di danno al pensiero forte che lo sostiene. Una contaminazione che, in realtà, preoccupa solo perché metterebbe in pericolo ambigui, se non illegittimi, «diritti» che sono imposti, come verità assolute, e che non ammettono di essere contrastate dall’irriducibile dimensione della ricerca umana, su verità senza confini.

Non ci sono, purtroppo, parole e azioni compiute e assolute che possano convincerci sulla univocità della natura di quel benessere che pur tutti cerchiamo come valore invariante del nostro esistere, e che, nella cultura occidentale, sembra regolarmente naufragare nella prospettiva, del tutto improbabile, di un diffuso benessere, sostanzialmente materiale, che può derivare dal possesso e dal potere sulle cose. La concretezza, proposta da questo impraticabile benessere, non richiede capacità di riconoscimento della complessità della realtà (che ci tocca, invece, affrontare), ma offre, come immediate risposte, istintive e automatiche, visioni solo meccaniche, insufficienti per entrare nel merito del senso del nostro vivere.
Fra incerti algoritmi preconfezionati (in particolare quelli, della competizione e dei mercati, del mondo occidentale) e slogan che ci affliggono con le loro compiute ma insignificanti banalità quotidiane, siamo indotti a cercare facili soluzioni ad ogni problema. La suggestione di poter dare sempre una risposta ad ogni cosa, arriva anche a piegare la nostra genialità e creatività che pur ci spingerebbe ad indagare sull’insensatezza di questi meccanismi del tutto inadatti a fornire, anche solo, indicazioni per scelte affidabili.
Abbiamo la responsabilità diretta e indeclinabile di esercitare le nostre capacità di elaborazione di pensieri, di giudizi, di revisione e cambiamento di modelli di riferimento senza i quali le libertà umane rischiano di cedere il posto ai meccanismi del consenso acritico. In nome di un’inverosimile chiarezza formale di idee semplici ed univoche non possiamo , però, accettare deviazioni suggestive, dalle nostre responsabilità in nome di una loro immediata spendibilità. Sono deviazioni, devastanti sulla nostra autonomia di pensiero e di comportamento, che non solo pesano sugli equilibri naturali, ma fanno venire meno anche il senso e la ricerca su altre questioni, sulle quali le peculiarità umane sembrano invitate a rispondere e che noi, invece, accettiamo o prendiamo in esame con tanta lentezza e superficialità, da non arrivare mai, concretamente, ad applicarle.

C’è, per esempio, un assurdo diritto alla proprietà intellettuale che di fatto è un vincolo meccanico che impedisce, a buone idee già acquisite, di diffondersi e di svilupparsi ulteriormente, anche nella direzione di dare risposte ai bisogni, e di non finire con l’essere solo un oggetto, di un sofisticato commercio di cosiddette proprietà intellettuali, finalizzato solo alla produzione di ricchezza.
Ottimi risultati in ogni campo rimangono, per troppo tempo, in attesa di diventare, un giorno, occasioni per favolosi profitti favorendo, così, il fatale declino di realtà sociali, culturali, politiche, economiche, private di quella libera circolazione delle conoscenze che mette in moto quelle qualità collettive che una società esprime come creatività e capacità di costruire, di mettere alla prova, di aggiornare e di riformulare alternative senza l’assoluto delle scommesse tecnologiche e dei condizionamenti del massimo profitto.
C’è una contraddizione di fondo che converrà un giorno riaffrontare per rivedere, la sua datata strutturazione, alla luce dei cambiamenti socio-economici e culturali dei nostri giorni e di un miglior futuro che potremmo così procurarci. Si tratta di una contraddizione che incide su quel senso, che è alla base di concetto di benessere, che non è solo una questione di forma, con la quale viene confezionato e comunicato, o di lessico, usato per definirlo.
Siamo in un mondo nel quale i mercati sono liberi, ma tutto il resto, invece, è vincolato. C’è, dunque, una asimmetria formale, ma anche un sottinteso e mistificante assunto che propone la gratuità del mercato e l’onerosità delle merci. Siamo in un’economia liberista che trasforma, in valore monetario, ogni cosa materiale e immateriale (possono avere un prezzo, infatti, le preghiere, le speranze di un futuro migliore, le attenzioni misericordiose della sussidiarietà, e si può anche fare una beneficienza dispendiosa a ristoro di una ricchezza raggiunta e posseduta o di un senso di colpa per un divario di benessere che sembra un’ingiustizia da risarcire).
Ma siamo anche in presenza di un’unica eccezione: il mercato è gratis! Come mai il liberismo, in questo caso, si mostra così generoso da arrivare a regalarci il libero mercato? La giustificazione ipocrita proposta, presenta il mercato come un servizio che risponde alla domanda di bisogni ai quali l’economia si impegna a fornire risposte, se gli offrono gli spazi per svolgere questo suo compito. In realtà, si tratta di un costo che dovrebbe essere sostenuto da chi usa il mercato (che, invece, invoca il diritto non solo di esserne esonerato, ma anche di ricevere agevolazioni, oltre all’uso praticamente gratuito di strutture che pretende siano messe a sua disposizione). Inoltre, la domanda alla quale gli attuali mercati, nella quasi totalità, rispondono non è quella di bisogni, ma quella dei consumi fine a se stessi.

Analizzando lo scenario dell’attuale crisi, sembra si possa dire anche qualcosa di più: si tratta di una crisi che ha prodotto ricchezza ingiustificabile per il mondo della finanza, che ha impoverito i risparmiatori, che ha colpito il sistema industriale, che ha ridotto la capacità di spesa dei lavoratori.
Ma mentre la produzione soffre per il blocco di molte attività, non ci sono sintomi di crisi da astinenza dei consumi che pur sono notevolmente diminuiti. Si consumano solo meno beni e servizi non obbligati, mentre la sofferenza è invece presente per chi non ha modo di soddisfare bisogni essenziali. Detto in altro modo, è evidente che il mercato non è creato da una domanda implacabile di consumi (che si fanno solo quando si ha più di quanto è necessario per vivere), ma è creato dall’offerta di beni e servizi decisi dalla produzione. In questo caso la produzione è stata indirettamente colpita proprio dal mondo della finanza che ha impoverito la capacità di spesa per i consumi di massa.
È una situazione che richiama, come metafora, la storia dello scorpione (il mondo finanziario) che avvelena la rana (l’economia) che lo sta trasportando sull’altra riva del fiume. Se, poi, consideriamo il rapporto diretto fra consumi e inquinamento (l’immagine è quella della nuvola di inquinanti che sovrasta la regione cinese, fortemente industrializzata, dello Guangdong) è paradossale prendere atto che l’inquinamento (derivante dalla produzione-consumo di beni), dipendendo dalla disponibilità di denaro, viene mitigato da una crisi finanziaria.
Possiamo, cioè, renderci conto, oggi, quanto il denaro (ormai una variabile indipendente e non più strumento finalizzato al buon funzionamento dei sistemi economici) può incidere sulla qualità dell’ambiente (elemento fondamentale che decide anche sulla qualità della nostra vita). È, dunque, evidente che il mercato dei consumi superflui (e il denaro che lo alimenta) non solo non offre un servizio (come avviene, invece, per il mercato dei bisogni), ma è soprattutto un generatore di impulsi deviati che porta solo verso quell’esaurimento delle risorse e quel degrado della qualità della vita che nelle nazioni moderne viene associato ad una malintesa e inconsistente idea di benessere assicurato dai consumi.
Forse le risorse possono essere utilizzate in modi più razionali per soddisfare bisogni e preservarle anche per le future generazioni: è una questione di consapevolezze, responsabilità e di formazione (senza condizionamenti precostituiti) dei cittadini che le «culture di moda» non considerano. Siamo allontanati, così, dall’interesse a ipotizzare e mettere alla prova le alternative e, i cittadini più pigri o meno volenterosi, sono messi nella condizione di non doversi più preoccupare delle loro, pur inalienabili, responsabilità.

All’inizio della rivoluzione industriale la produzione non era un servizio offerto alla società civile, ma un modo per fare profitti e (tralasciando le questioni sui diritti all’uso delle risorse) i produttori si preoccupavano in prima persona delle specifiche infrastrutture necessarie ai loro mercati: dalle vie di comunicazione, ai luoghi di vendita, alla difesa armata degli interessi in terre straniere, tutto era finanziato da loro stessi, senza intervento dello Stato, al quale naturalmente pagavano tasse e concessioni, perché lo «stare e lavorare» in un luogo economicamente, socialmente e culturalmente organizzato non è gratis, cioè non lo si può imporre e farlo pagare ad altri. Una riflessione, per immaginare alternative al monopolio dell’attuale sistema economico liberista globale, è dunque necessaria e forse, in questi tempi, anche urgente. È una riflessione che deve affrontare, come argomento fondamentale, proprio la definizione del concetto di benessere (quello in vendita, sugli attuali mercati dei consumi non sembra più riguardare la condizione umana) che, dunque, va riformulato per individuare senza ambiguità chi è il destinatario e quali sono, invece, solo gli strumenti operativi.
È necessario che la gestione del nostro esistere, per assumere la dimensione delle qualità umane, rientri nelle nostre legittime disponibilità. Solo così, potremmo scoprire quel piacere delle relazioni, quel senso delle cose, quella ricchezza di risorse di diversità che danno sostanza alla scoperta del valore vitale degli equilibri complessi. Solo così il benessere potrà plausibilmente trovare una propria naturale espressione nella sintonia con gli equilibri vitali, cioè con quei luoghi di esplorazione e costruzione di un mondo che è capace di accogliere e valorizzare, senza vincoli preordinati, la condivisione, delle unicità delle esperienze umane.
Ogni singolo individuo, può contribuire in modo originale alle azioni sinergiche che danno vitalità fisica, ma anche fondamentali e ulteriori significati e senso, al divenire del mondo. Dovremmo occuparci, per esempio, non di quante cose possiamo possedere o quanto potere possiamo esercitare, ma quanto possiamo esprimere, di noi stessi, per contribuire alla storia degli eventi creativi che danno significato e sostanza ai fenomeni naturali, uomo compreso.